La donna nella letteratura

          La donna si è conquistato un più che rilevante spazio nella storia letteraria a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, ma, perché la sua presenza nel mercato librario riuscisse ad eliminare quasi del tutto la disparità numerica nei confronti dei letterati uomini, ha dovuto attendere fino agli ultimi decenni del secolo scorso. Su detta disparità, che si è protratta per secoli, ha pesato, come è noto, l’esclusione che è stata costretta a subire ad ogni livello della vita sociale, culturale ed artistica. Emblematico risulta, a tal proposito, il caso di Sibilla Aleramo, fortemente penalizzata, da più di un punto di vista, non solo per la particolare tematica affrontata nel suo capolavoro, Una donna, ma soprattutto in quanto donna.

      A tutt’oggi, tuttavia, in cui il numero delle letterate nel mercato librario si è fatto quasi pari a quello degli uomini e più di un pregiudizio risulta ormai essere stato forse definitivamente rimosso, ci si continua a interrogare sulla questione se esista o meno una specificità della scrittura al femminile e ci si domanda, altresì, quali novità siano state storicamente introdotte dalla stessa, sia in campo narrativo che in quello poetico, per quanto riguarda temi, stilemi e linguaggio. Va da sé che se, da un lato, “un testo letterario, […] al di là del soggetto che scrive, partecipa sempre in modo profondo e complesso al sistema culturale e letterario” e se, dall’altro, si resiste alla tendenza di considerare aprioristicamente le scritture femminili cose di poco conto e, comunque, di letteratura minore, le stesse “possono […] fornire molti elementi di conoscenza: diventano in questo caso significativi sia l’adesione ai modelli sia, quando si esprime, lo scarto rispetto alle norme”.[1]

        È certo, tuttavia, che, per il lunghissimo silenzio che la donna ha dovuto subire ad ogni livello della vita sociale e culturale, la prima importante novità da essa apportata è stata l’apertura della pagina letteraria all’intimità femminile. E, a favorire per primo il passaggio della donna dal ruolo passivo di ispiratrice dell’arte a quello di narratrice e rivelatrice di se stessa e della propria interiorità fu il contesto storico-culturale illuministico, in quanto fu proprio “nello spirito dell’illuminismo, della sua antropologia che si comincia a prospettare quanto c’è di naturale e quanto di culturale nella donna”[2], a scoprire cioè che cosa risulti connaturato all’essere femminile e che cosa invece dipenda dalla cultura dell’epoca in cui vive. Avvenne così che in tutte le letterature europee del periodo illuministico le scrittrici cominciarono a pubblicare lettere, diari e a inventare trame; a scrivere novelle con l’intento di educare e storie tragiche d’amore, di avventura e di seduzioni ordite a danno di fanciulle povere e indifese; e a descrivere la vita campagnola, con uno stile poco lineare, ampolloso e qua e là punteggiato da termini tratti dal dialetto.

        L’ingresso nel mondo della letteratura delle scrittici, oltre a favorire l’allargamento del numero complessivo dei letterati, spinse, da un lato, questi ultimi a ripensare profondamente il proprio ruolo e apportò, dall’altro, una maggiore diversificazione delle tipologie e delle ideologie letterarie. Un luogo per eccellenza dello scambio e del confronto culturale divenne, nel corso dell’Ottocento, quello del salotto letterario, l’organizzazione delle cui attività e dei cui incontri risultava di fatto affidata proprio alla padrona di casa, da cui lo stesso prendeva la sua denominazione. Si trattava di donne coniugate e appartenenti all’aristocrazia, le quali attraverso lo spazio del salotto riuscivano ad “entrare in contatto, in maniera meno mediata, con la cultura ufficiale”. [3]  E, nel corso dello stesso secolo, le autrici attraversarono diverse fasi, nel corso delle quali, cambiando di continuo atteggiamenti, percezione della propria identità e predilezioni tematiche, raggiunsero via via una sempre più avveduta consapevolezza e una sempre più autonoma maturazione artistico-letteraria.

      Ma qui preme soffermarsi solo sulla fase posta a cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, la quale ha visto intensificarsi, come mai era accaduto prima, il numero delle letterate, favorendo il realizzarsi di un notevole salto di qualità, che le portò ad indagare la propria esistenza e le condizioni di vita in quanto donne. Dal punto di vista esistenziale, dette scrittrici risultano accomunate dal fatto che andarono incontro sia al matrimonio che alla maternità e che, in quanto autodidatte, stabilirono un intenso e straordinario rapporto con la lettura, la vera fonte della loro formazione e del loro generale riscatto.

        Come ha affermato G. Morandini, le scrittrici di questo periodo “scrivono senza più sentirsi in posizione subalterna e sollevate, almeno in parte, dal condizionamento del sesso. Scrittura e vita sembrano sul punto di ricomporre una scissione antica”[4] e, ponendosi in sintonia con il movimento impegnato nella battaglia per l’emancipazione femminile, dedicheranno particolare attenzione nella propria scrittura, sia narrativa che giornalistica, alla condizione della donna in seno alla famiglia, alla sua identità di coniuge e alla diversa sensibilità con cui dalla stessa è vissuta la maternità rispetto al passato, e al ruolo sociale assegnatole dalle norme giuridiche, dalle consuetudini e dalla cultura dominante, dalle tradizioni e dalle ideologie del tempo.

       E c’è poco da stupirsi se, nella riflessione di dette scrittrici, un posto di rilievo risulti assegnato all’amore, al quale sono, in via del tutto naturale, connessi gli aspetti che riguardano la sfera sentimentale, la vita di coppia e la tematica del divorzio. Ma l’amore filtrato dalla sensibilità femminile apparirà tutt’altra cosa rispetto alla rappresentazione che ne era stata data dalla secolare tradizione a prevalenza assolutamente maschile. Come è stato osservato dalla Studiosa già citata, “Il tema dell’amore, […] che la cultura borghese aveva ridefinito nella rappresentazione degli affetti familiari, in cui la donna risulta la figura depositaria dell’immagine e del valore degli stessi, appare in questi testi ripercorso secondo un’ottica notevolmente diversa: non solo la donna che scrive sembra rivendicare a sé, come diritto e come parte della propria realtà sentimentale, la passione d’amore, che è, nei testi stessi, tensione emotiva esterna alle regole e agli istituti sociali, ma in più segnala, direttamente o meno, il disagio, talvolta la negazione di sé, che essa patisce dentro le convenzioni sociali e morali della famiglia. La quotidianità, in questi racconti, sembra annegare i desideri, i sentimenti e l’intelligenza delle protagoniste”.[5]

[1] M. Zancan, La donna, in Letteratura Italiana, Le questioni, vol. V, Einaudi, Torino 1986,  p.767

[2] G. Morandini, La voce che è in lei, Bompiani, Milano, 1980. p.8

[3] M. I. Palazzolo, I salotti di cultura nell’Italia dell’800. Scene e modelli. La società moderna e contemporanea, Franco Angeli, Milano 1985, p.29

[4] p.9

[5]M. Zancan, La donna, op. cit., pp.824-25

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