La passione del giovane scrittore Lorenzo Carnuccio per l’arte letteraria, pur essendosi manifestata piuttosto precocemente, si è fino ad oggi mantenuta entro i limiti propri della parsimonia e della misura, così che la tumultuosità compositiva, tipica della fase giovanile, è stata di fatto completamente neutralizzata.
Sono dovuti, infatti, trascorrere diversi anni, perché Lorenzo dall’invio della sua prima prova letteraria, da esporre sul mio Sito, si decidesse a passare a quest’ultima.
La parola-chiave del Racconto “Semi” – tanto profondo quanto denso di significato – è quella che funge anche da titolo del medesimo. Indubbia risulta la sua valenza artistico-letteraria, palesemente espressa sia sul piano stilistico-formale che su quello del contenuto.
Ad evidenziare le qualità di questo bel racconto è curiosamente la sua estrema brevità, la quale – contrariamente a ciò che comunemente si crede – rende di norma la composizione ancor più esigente e accuratamente selettiva da ogni punto di vista.
Semi
Il giorno che ti ritrovai ai piedi del mandorlo tutta la foresta pulsava di vita e calore. Il mondo gestiva il suo precario equilibrio per contrapposizione.
Le mandorle sono sempre state il tuo frutto preferito. Le mangiavi quasi ogni giorno e in qualsiasi forma, dal latte fino ai dolci, e dicevi sempre che facevano bene al cervello. Per questo ti appoggiai subito quando decidesti di piantarne un albero in giardino, per poterle avere sempre a portata di mano senza farti fregare al mercato. Ricordo il tuo entusiasmo quando dal terreno crebbero i primi germogli e il tuo orgoglio nel mostrare a Fabietto le prime foglie che spuntavano da un giorno all’altro. All’epoca nostro nipote aveva forse sei o sette anni, e ti chiese se un giorno gli avresti lasciato costruire una casa sui suoi rami, come quelle che vedeva nei film americani. Abbandonasti per un momento il tuo solito pragmatismo e volgesti lo sguardo in alto, incapace anche tu di resistere alla tentazione dei sogni.
Il giorno che ti ritrovai ai piedi del mandorlo la foresta si ammutolì. Non c’erano uccelli a cantare, né un fruscio di foglie a farti compagnia, come se anche gli alberi fossero nell’apnea colpevole di chi deve nascondere una malefatta. Tu eri sdraiato a terra supino, con il viso teso e bloccato in una strana smorfia, i tuoi occhi illuminati da un fascio di luce che penetrava fra le foglie. Mi sono sempre chiesta che cosa avessi visto nei tuoi ultimi momenti. Se, magari, guardavi in alto ricordando i capricciosi desideri di Fabietto.
Il giorno che ti ritrovai ai piedi del mandorlo mi venne voglia di urlare, ma non ci riuscii fino all’arrivo dell’ambulanza. Avevo già capito cosa ti era successo, ma il silenzio intimidatorio di quel momento pareva aver inghiottito la mia voce, quasi a volermi rendere complice. I soccorsi furono rapidi, ma utili solo a rompere quella surreale quiete che ostacolava lo sfogo del mio dolore. Ti fecero un massaggio cardiaco, ti toccarono il polso, guardarono le bucce dei frutti sparse per terra accanto a te e mi rivolsero uno sguardo desolato. Non ti era preso un infarto: la tua era stata un’intossicazione da mandorle amare.
Ricordo i paramedici chiuderti in un sacco e trascinarti via davanti all’albero, che si ergeva alto e austero sopra di te, come un pugile che abbia appena sconfitto il rivale. Pensai a come la natura sapeva essere irriconoscente. Per anni avevi coltivato quell’albero col tuo amore e dai suoi frutti era giunta la tua morte.
All’epoca non comprendevo questa forma di immoralità. Decisi di farmi giustizia da sola, abbattendo il mandorlo il giorno seguente: dissotterrai le sue radici e lì scavai la tua tomba, perché tu potessi riposare nella foresta che amavi, senza nessuna riverenza per il tuo aguzzino. Non sapevo, allora, che in quel modo stavo intrecciando ancor di più i vostri destini.
Decisi di vendere la nostra casa in campagna e di fuggire in città. Lo feci per allontanarmi da quel luogo che rinnovava giorno dopo giorno il mio dolore, ma anche perché avevo sviluppato una sorta di avversione per la natura che fino a quel momento avevamo venerato insieme. Il cemento è stato la mia vita fin quando non sono invecchiata: nella solitudine di quell’età ho sentito il bisogno di cercarti ancora.
Lasciai il mio piccolo appartamento in centro per far visita alla tua tomba. Il treno sul quale viaggiavo costeggiava la campagna che non vedevo da anni. Mi sembrava di riscoprire tutto come fosse la prima volta, e ad ogni fermata sentivo un nodo alla gola e mi domandavo se avesse senso cercare la compagnia di un morto. Quando arrivai al tuo sepolcro vidi che la lapide era stata scalzata da un nuovo albero di mandorlo, che si ergeva poderoso al di sopra degli altri. Quel giorno compresi e accettai tutto ciò che mi era inspiegabile e doloroso tanti anni prima. Forse la natura non ti era stata così ostile. Ti aveva richiamato per darti nuova vita, plasmandoti in una forma diversa. Ti aveva reso immortale prendendoti con sé.
Mi arrampicai sopra i tuoi rami. Dalla cima potevo vedere la foresta che era stata testimone della tua morte e della tua rinascita. Le fronde degli alberi frusciavo al vento, forse comunicandoti qualcosa nella loro lingua. Da lontano, un odore di muschio secco accompagnava il ruggito di un orso che usciva dal letargo. Il sole riscaldava il mio viso e mi restituiva l’energia violenta dei ricordi. Tutto era tornato a pulsare di vita e di luce, e tu eri parte di quell’eterno flusso del mondo, che correva tumultuoso e inarrestabile assumendo forme diverse e nuove, come l’acqua di un ruscello nei cui argini si celava la nostra esistenza.
Tornai a vivere accanto a te. Ogni tanto salivo fra le tue lunghe e nodose braccia, che mi sostenevano saldamente come quelle di un papà premuroso con la sua bambina. Sentivo come se fra noi corresse una grande differenza di età. Mi pareva quasi di essere lenta a crescere, mentre tu eri stato troppo veloce:ti eri fatto legno e fiore, radici e frutto, ed eri già rinato una volta.
Pensai a come tutta la nostra vita era come un lungo ed eterno ritorno. Da bambini desideriamo la casa sull’albero, vivere sul trespolo dei nostri sogni; attraversare il tempo coi piedi per terra ci appare una noiosa eventualità di un futuro remoto. Prima o poi però l’età adulta ci attira a sé: alcuni scendono gradualmente, altri cadono sul duro suolo della realtà con uno schianto. Ed infine,quando diventiamo vecchi, torniamo a volerci arrampicare sull’albero. Abbiamo di nuovo paura di rimanere a terra, soffocati dall’insensatezza dei nostri giorni, proprio quando stanno per finire. Solo allora ci appare chiaro come la vita sia un continuo saliscendi, un nascere dalle radici, fiorire, fare seme e ricadere di nuovo a terra.
Sulle tue braccia nodose aspetto che la natura mi chiami di nuovo alla sua essenza: attendo di cadere anch’io dal ramo.Intanto, provo a immaginare in cosa si reincarnerà il mio destino.Spero di tramutarmi pioggia, per poterti guardare dall’alto, accarezzare le tue foglie, innaffiare le tue radici, e rinascere in te.
Lorenzo Carnuccio
Soltanto…bellissimo.
Veramente bello. Ma non lo considero un racconto. È piuttosto una prosa lirica, intessuta di ricordi, di armonie, di corrispondenze segrete tra le parole, di struggenti sensazioni…