I Partiti personali

       Se in passato il Partito di qualunque schieramento si poteva tranquillamente riconoscere in base all’ideologia e al più o meno prevedibile programma, oggi lo stesso s’identifica esclusivamente attraverso il suo leader, tant’è che non si può immaginare l’uno senza l’altro. È il fenomeno della personalizzazione della politica che, affacciatosi nel periodo della seconda Repubblica, ha avuto modo di radicarsi inizialmente nei Partiti del Centrodestra, diffondendosi sempre più, dal periodo delle Scissioni in poi, in altre forze politiche.

       Il trionfo del personalismo in politica ha fatto accrescere a dismisura il potere dei leader, divenuti ormai incontestabili e di fatto inamovibili e ai quali è demandata ogni scelta, come quelle della linea del partito e dei candidati delle più importanti competizioni elettorali e dei capigruppo parlamentari. Con un’arma così potente, come questa, nelle proprie mani, il leader si assicura, da parte di ogni esponente del suo personale Partito, una tale fedeltà, da rasentare il servilismo di tempi ormai lontani.

   La vita dei Partiti personali, oltre a non essere regolata da alcuno Statuto, non risulta caratterizzata neppure da alcun Congresso, nemmeno quando, al lume del buon senso, se ne dovrebbe avvertire la necessità, per discutere, progettare e definire il programma e la linea politica in vista d’importanti appuntamenti elettorali. Inoltre, la loro struttura organizzativa di norma non contempla organismi di alcun genere, al fine di consentire occasioni di confronto di idee, opinioni ed eventuali proposte.

   Ci si limita semplicemente a qualche riunione informale fra i capigruppo di Partito dei due rami del Parlamento e il loro Capo. In più casi, dette riunioni vengono addirittura svolte nella villa dell’insostituibile Capo che – guarda caso – non risulta essere stato collegialmente eletto come tale da nessuno; anche se questi Partiti in ogni occasione non fanno che invocare il principio, secondo cui  una carica pubblica di tipo verticistico dovrebbe essere il frutto di un’elezione libera e popolare.

    È politicamente, altresì, significativo che a nessun notabile di detti Partiti importi granché del fatto che al loro interno si registri, per i motivi appena esposti, un forte deficit di democrazia, che cioè qualunque scelta, anche la più importante, non venga effettuata democraticamente. Purtroppo, oggi ad un aspetto così importante non fanno caso neppure gli elettori, accecati come sono da una vera e propria idolatria nei confronti del leader, il cui nome e la cui foto, immancabilmente, campeggiano nel simbolo stesso del partito.

   Da un partito personale non ci si può certo attendere la delineazione di una ben articolata ed organica ideologia, né di un puntuale e dettagliato programma politico, perché la sua azione è portata a rincorrere di continuo il quotidiano, o a difendere eventualmente questa o quella categoria sociale, alle prese con una battaglia di tipo corporativo, come quella – ad esempio – delle Concessioni balneari, al fine di racimolare facilmente consensi. I partiti personali, in questi casi, non vanno certo per il sottile e tra la difesa di un interesse di carattere nazionale e la strumentale tutela demagogica di un interesse corporativo scelgono, quasi sempre, quest’ultima per il motivo appena esposto.

   Il partito personale, inoltre, si mantiene in costante sintonia con i sondaggi, che per esso rappresentano la bussola del proprio agire, ovvero per far quanto più combaciare quest’ultimo con gli umori e la pancia dell’elettorato. Giunge persino a far venire meno il proprio sostegno ad un governo, se dai sondaggi emerge che ciò è motivo di una continua emorragia di consensi; che è quanto ha fatto proprio in questi giorni il M5S nei confronti del Governo Draghi.

  Non risulta certamente difficile individuare i ceti sociali di riferimento di questo o di quel partito personale e i fondamentali capisaldi su cui si fonda l’identità dell’uno e dell’altro. Il partito personale di Salvini, ad esempio, ha storicamente identificato i propri ceti di riferimento negli imprenditori – piccoli e grandi – delle regioni settentrionali, i lavoratori autonomi e le partite iva. Mentre i suoi principali capisaldi ideologici coincidono notoriamente con il condono, la rottamazione delle tasse non pagate, la questione-immigrati, su cui è andato da sempre lucrando voti, e con la netta contrarietà ad ogni riforma delle pensioni che s’ispiri alle linee-guida fissate da un’autorità in materia, come la Fornero.  Salvo poi fare i conti, una volta al governo, con la dura realtà delle insufficienti risorse a diposizione per realizzare quanto promesso in campagna elettorale, e con le concrete difficoltà del fare, come si è visto accadere in più di un’occasione precedente.

    Stessa riduzione del bagaglio ideologico si nota nell’identità di Berlusconi, della Meloni o del M5S. L’ideologia delle grandi forze politiche di una volta, si sa, rifletteva una ben definita visione della cultura e della vita sociale e un orizzonte di futuro, da cui si facevano discendere le più importanti decisioni e iniziative, mentre il perimetro ideale degli odierni partiti personali è rappresentato solo da una ridottissima serie di obiettivi, che ad esempio, nel caso dei Fratelli d’Italia, sono grossomodo rappresentati dalla questione sicurezza, alla quale si presume di fare efficacemente fronte attraverso un indurimento dell’istituto della legittima difesa, o dalla fatidica questione delle ondate migratorie, considerate propagandisticamente come il frutto di un complotto architettato dall’Africa contro l’Italia, per distruggere il popolo italiano e “controllare meglio la sua popolazione”, e dalla netta ostilità ad ogni tipo di società multiculturale.

      Oltre ad essere affetti, in forma grave, da sicumera, arroganza e presunzione, risulta tipico dei  partiti personali concepire la carriera del politico come qualcosa che non debba mai aver fine – comunque ciascuno di essi abbia governato -; tutto al contrario di quanto normalmente avviene invece negli altri Paesi europei, dove, tanto per fare qualche esempio, un Cameron, un Sarkozy, un Tony Blair, un Hollande, o una Merkel,  una volta conclusa la propria prova di governo, sebbene qualcuno di essi fosse tutt’altro che decrepito, sono per sempre scomparsi dalla scena politica. In Italia, invece, un Silvio Berlusconi, per quanto vecchio e ormai in ballo da più di un trentennio, non abbandonerà la politica, se non quando lo vorrà il Padreterno.

      I numerosi “cambi di casacca” costituiscono l’altro vistoso aspetto dei partiti personali, anche se questo è un fenomeno che riguarda ormai tutta la classe politica dei giorni nostri. Basti pensare che, nel corso dell’attuale legislatura, i cambi di casacca sono stati 304, mentre in quella precedente addirittura 569. Tale fenomeno risulta favorito da più di un fattore, il primo dei quali è senz’altro costituito dall’estrema frammentazione del panorama politico italiano, nel quale a ciascuna parte dell’emisfero parlamentare non corrisponde un unico Partito, come in altri Paesi, ma diverse forze politiche, che si contendono la leadership all’interno della medesima coalizione di appartenenza.

        A spingere ad abbandonare un Partito per un altro numericamente più piccolo è, il più delle volte, la maggiore garanzia che in quest’ultimo viene di fatto offerta ad una successiva ricandidatura parlamentare dell’interessato. Resta, tuttavia, vero che, se in Italia le forze politiche non si assomigliassero così tanto fra di loro, il salto della quaglia risulterebbe forse impossibile, oltre che moralmente più vergognoso.

     Detto fenomeno si configura diversamente a livello locale, dal momento che qui il cambio di casacca generalmente risulta il sintomo di un profondo malessere, di una delusione o di una  ribellione nei confronti di un andazzo, ritenuto ormai non più sopportabile per le ragioni politiche più diverse.

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