La letteratura femminile tra Ottocento e Novecento

Il quadro sociale, economico e politico nel quale opera il folto numero di scrittrici del periodo compreso tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del secolo successivo risulta caratterizzato da profonde trasformazioni, come il lento e graduale passaggio dalla società contadina a quella industriale, che si determinerà soprattutto nell’area settentrionale e a pochi decenni dal raggiungimento dell’unificazione politica.  Tra le scrittrici di maggiore spicco si annoverano la Marchesa Colombi (Maria Antonietta Torriani), Emma (Emilia Ferretti Viola), Neera (Anna Radius Zuccari), Regina di Luanto (Guendalina Lipperini Roti), Bruno Sperani (Beatrice Speraz), Contessa Lara (Eva Cattermole), Grazia Deledda, Ada Negri, Annie Vivanti, Matilde Serao, Sibilla Aleramo (Rina Faccio), le quali, fatta eccezione di poche, non godono ai giorni nostri di alcuna notorietà all’infuori della ristretta cerchia degli addetti ai lavori e degli appassionati.

              Nella maggior parte dei romanzi di dette scrittrici l’attenzione si volge alla vita delle donne dei ceti più umili, come è evidenziato, ad esempio, già dai titoli delle narrazioni della Marchesa Colombi e di Emma,  In risaia e Una fra tante,  nella prima delle quali è descritta la misera vita della giovane Nanna, che si mette a svolgere il malsano lavoro delle risaie, illusa di poter così guadagnare quanto basta, per poi convogliare felicemente a nozze; sogno destinato di lì a poco a sfumare, perché si ammala di malaria.  In un uguale destino di sfruttamento s’imbatte la protagonista del romanzo di Emma, nel quale una povera e ingenua ragazza di campagna, Barberina, è raggirata e crudelmente fatta cadere nel losco mondo della prostituzione.  È del tutto evidente che a caratterizzare queste prime prove di narrativa femminile è l’intento di denuncia: “l’attenzione all’ingranaggio della città che spezza la felicità di natura, la denuncia della mentalità “positiva” e della grettezza borghese, l’analisi delle carriere istituzionali, della “casa chiusa” ma anche della corsia d’ospedale, la rinuncia a un finale di riscatto, attestano un momento singolare di chiarezza e di verità”[1].

          Un’altra interessante scrittrice è Neera, che ha goduto dell’apprezzamento, oltre che di Luigi Capuana, di Benedetto Croce che, dopo averla definita “una tra le voci più autorevoli d’Italia”, affermò che “il problema della donna e quello dell’amore hanno formato l’oggetto principale e quasi unico del suo studio”.[2]  A differenza dell’opinione di Sibilla Aleramo, secondo cui il divenire madre non era da considerare più l’unico percorso di vita delle donne, da Neera la maternità non è mai messa in discussione, in quanto spesso, a suo giudizio, costituisce la consolazione e la cura per la delusione matrimoniale. A detta scrittrice, che non ha mai nella propria narrativa manifestato alcuna simpatia per il femminismo, va tuttavia ascritto il merito di aver richiamato, prima dell’Aleramo, l’attenzione sulla questione femminile. In un suo romanzo, Lydia, la giovane protagonista, che è una ricca esponente della società aristocratica milanese, fa suo un motto che nell’Italia postunitaria appariva scandaloso: «divertirsi»,[3] nel quale si condensano il rifiuto del matrimonio, la ricerca dell’amore vero e  il desiderio di evasione sociale.

               Un’altra scrittrice alquanto rappresentativa del periodo fu senz’altro Eva Giovanna Antonietta Cattermole, nel cui unico romanzo L’innamorata del 1892, confluirono argomenti oggettivamente scabrosi in un’epoca d’imperante perbenismo. Ma a creare intorno a lei un alone scandalistico contribuì soprattutto la vicenda del suo adulterio e del successivo divorzio, che la rese vittima dell’ostracismo da parte sia del marito che del padre e della società tutta. Nel suo romanzo traccia la storia di una donna che, per quanto devota al suo amante, non intende in alcun modo rinunciare a gestire da protagonista la propria vita. Una scrittrice, dunque, non solo capace di mantenere le distanze dal verismo e dai languori d’annunziani, o dai facili colpi di scena da feuilleton, ma anche di far trasparire da ogni sua pagina la fragilità delle passioni, la tristezza che puntualmente fa seguito all’atto sessuale, le piccole volgarità, la nausea per la sazietà d’amore, l’insofferenza per le banalità, le ipocrisie, le vigliaccherie, le menzogne e la noia. Nessun amore è eterno per la Contessa Lara, in quanto il tempo logora il sentimento che ne è alla base, fino a trasformarlo nel disgusto reciproco: “II suo cuore, improvvisamente, era entrato nel buio, si era chiuso come una tomba, dove non c’era più né desiderio, né speranza, né dolore, né nulla. Era questo, dunque, l’amore?”.

          La scrittrice di maggiore spicco del periodo fu Matilde Serao, il cui intenso amore per la lettura e la scrittura nacque, all’età di otto anni, mentre accudiva ad una grave malattia della madre, e che compì i propri studi a Napoli, dopo i quali dovette mettersi a lavorare come ausiliaria presso i Telegrafi di Stato per poter sostenere la famiglia in difficoltà economiche. Serao “frequenta il collegio femminile e ritrae le compagne seguendone il destino, […] lavora ai telegrafi di Stato, alienata e insieme affascinata dalla nuova comunicazione meccanica, come lo sarà in seguito dalle rotative dei giornali. Questa ragazza non bella, triste ma forte, attraversa la sofferenza delle esistenze che l’attorniano, sente la disillusione delle maestre suicide in provincia, condivide lo sfruttamento delle telegrafiste”.[4]  La relazione che il marito intrattenne con la cantante Gabrielle Bessard, che gli dette una figlia e che poi decise di uccidersi per il rifiuto opposto dall’amante di abbandonare la moglie Matilde, rappresenta certamente la pagina esistenziale più drammatica della Serao, la quale accolse amorevolmente la bambina abbandonata dalla madre, dopo che questa si era uccisa sull’uscio di casa Scarfoglio con un colpo di pistola. La terribile vicenda riempì le pagine dei giornali dell’epoca, costringendo la coppia alla separazione. Nel modo di narrare di detta scrittrice risultano inscritte le impronte giornalistiche dell’acuta capacità osservativa, dell’aderenza ai fatti e del registro colloquiale ed essenziale del linguaggio, come è ampiamente testimoniato sia dalle sue novelle che dai numerosi romanzi.

              Un’altra singolare figura di scrittrice è Vincenza Pleti Rosic Pare-Spèran, che  visse una vita non meno tormentata di quella di altre scrittrici del periodo. Nata in Dalmazia nel 1839 e rimasta orfana in giovane età, fu allevata da parenti della madre in Istria. Si era rifugiata, per sfuggire al senso di solitudine, nella lettura, e fu fatta maritare con Giuseppe Vatta che non amava e da cui ebbe tre figli.  Lasciò poi marito e prole per unirsi con Giuseppe Levi, di antica famiglia triestina, ma ovviamente senza possibilità di formalizzare detta unione “clandestina”. Dopo che la cattiva sorte glielo tolse nel 1875, per provvedere ai quattro figli da lui avuti, dovette mettersi a scrivere. Trasferitasi a Milano nel 1876, nove anni dopo conobbe Vespasiano Bignami, professore di pittura, col quale allacciò un’appassionata storia d’amore che sfociò nel matrimonio e durò fino alla morte.

                    I titoli dei suoi romanzi – Nell’ingranaggio, Nella nebbia, Le vinte, In balia del vento – alludono alla fatalità cieca che domina la vita dei protagonisti dall’inizio alla fine “come un congegno pieno di ruote, di seghe, di punte di ferro che – scrive l’autrice – gira ciecamente intorno a se stesso”, facendo così affiorare una visione deterministica del destino umano. Detta visione risulta ancor più evidente, quando essa viene messa in rapporto alle donne, nel senso che “acquista una diversa concretezza: rimanda ai meccanismi profondi, istintivi e storici, che agiscono sulla vita femminile. La fatalità prende l’aspetto della servitù, della sottomissione, dell’autocensura a cui le donne sono da sempre soggette”[5]. È la famiglia il luogo nel quale il rapporto uomo-donna diviene più impietoso che altrove. Ma l’intento della Sperani non è certo quello di far perpetuare nelle donne l’atteggiamento della rassegnazione, quanto piuttosto spingerle alla ribellione.

           La letteratura femminile, dal periodo in esame fino ai giorni nostri –  di pari passo alla profonda evoluzione che, a tutti i livelli, ha conosciuto la società e, nel caso specifico, la donna per le rilevanti conquiste raggiunte in ogni campo –  oltre ad essere quasi riuscita ormai ad uguagliare il numero degli scrittori-uomini, è andata sempre più inevitabilmente annacquando quella che un tempo era ritenuta la sua specificità artistico-letteraria, sia perché è finito il tempo dell’orgogliosa e battagliera distinzione del genere femminile da quello maschile, sia per l’omologazione ormai dovunque dominante nell’epoca della globalizzazione.

[1] G. Morandini, La voce che è in lei, op. cit., p.14

[2] B. Croce, Neera, in La letteratura della nuova Italia, Laterza, Bari 1915, vol. III

[3]Neera, Lydia, Periplo Edizioni, Lecco, 1997, p.27

[4] G. Morandini, La voce che è in lei, op. cit. ,p.19

[5] Ivi, web

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