Il canto di Ofelia

A non pochi anni dalla sua prematura scomparsa, sembra più che mai opportuno avviare un bilancio intorno all’opera della poetessa di Pallagorio, Ofelia Giudicissi Curci.  E ciò non tanto allo scopo di tributare un riconoscimento di valore artistico alla sua poesia –  di cui non ha assolutamente bisogno, tanto meno da  persona modesta come la nostra  – quanto per la necessità di tracciare un primo articolato esame dei suoi tratti essenziali, superando così l’estem­poraneità del giudizio di recensione, fin qui tante volte espresso.

Va detto, innanzitutto, che la passione di Ofelia per la poesia è stata tale da costituire una profonda ragione esistenziale e da far ruotare intorno ad essa tanti momenti esaltanti della sua pur breve vita.  Tale passione non è certo durata il tempo di una stagione, come è nel caso di tante persone dei giorni nostri che alla poesia si accostano con la stessa superficialità con cui presto se ne allontanano. Né la poesia di Ofelia, contrariamente a quanto possa far pensare la semplicità del suo linguaggio e dei suoi modi metrici, si può ritenere il frutto di studio affrettato o di rade letture.

Di Ofelia sorprende, in primo luogo, la cura paziente con la quale si è accostata all’attività poetica ed ha seguito i tanto numerosi quanto affollati concorsi di poesia. Ammirevole è altresì la tenacia con cui ha cercato di assicurare alle sue poesie una più degna destinazione editoriale, per potere così assaporare l’intima soddisfazione di una loro quanto più ampia diffusione. Una ricerca questa che a tutt’oggi risulta oggettivamente faticosa e spesso deludente, se si pensa, da un lato, quanto poco siano considerati dai gruppi editoriali i poeti privi di notorietà e, dall’altro, quanto pochi permangano nel nostro Paese i degustatori del prodotto poetico.  Ofelia si è vista più volte apprezzata per le personali doti poetiche da critici autorevoli come Giulio Nascimbeni e Giuliano Manacorda, senza che a tali riconoscimenti seguisse alcun concreto vantaggio dal punto di vista editoriale – che è in fondo il destino di più di un grande poeta del nostro tempo.  Riviste e giornali molto noti si sono sì degnati di riservare alle poesie una lusinghevole attenzione attraverso recensioni, ma da parte di nessun editore è venuta ad Ofelia l’offerta di una più ricca e rinnovata edizione di “Pallagorio”, la prima ed unica sua raccolta poetica ad essersi trasformata in libro.

Eppure, la pubblicazione di “Pallagorio”, avvenuta per conto delle modeste Arti Grafiche Pedanesi nel novembre 1964, ha consentito a Giudicissi, per gli innumerevoli apprezzamenti critici ottenuti, d’inserirsi più a pieno nella vita culturale della Capitale e di stabilire così contatti decisivi con più di un importante letterato, come – per citarne uno tra i più noti –  Ignazio Silone.  A partire da quell’anno Ofelia sarà più volte invitata a fare parte di Commissioni per premiazioni poetiche e, in varie occasioni, assaporerà la grande emozione di assistere in teatro alla recita di sue poesie da parte di attori di professione.

Si deve, da una parte, all’intensa attività culturale di quegli anni e, dall’altra, all’instancabile ricerca di contatti epistolari con personalità del mondo della cultura il fatto che la poesia contenuta nella silloge “Pallagorio” poté raggiungere una ragguardevole notorietà.  Nel campo della poesia la diffusione, purtroppo, continua ad avvenire secondo le regole vigenti nel secolo diciannovesimo, quando – per fare l’esempio del grande Recanatese – spettava al poeta stesso il compito d’individuare i lettori a vari titoli più degni cui far pervenire le proprie poesie, così da poter meritare qualche gratificante giudizio. Ofelia non si è sottratta a tale necessità, convinta che questo restasse il modo più valido ed efficace per consentire al suo mondo poetico d’incontrarsi con dei lettori, così da mettere in sintonia le vibrazioni del suo animo con quello dei medesimi.

Il mondo poetico di Ofelia Giudicissi Curci è, sotto il profilo ideologico, caratterizzato da una non comune varietà d’interessi e da un’estrema coerenza.  E’ difficile scorgere tra questi una dominanza, visto che la sensibilità di Ofelia non conosce, tra un interesse e l’altro, alcuna differenza di gradazione e visto che la loro ricorrenza appare equamente distribuita tra le diverse liriche.

La poesia di Ofelia non può essere neppure catalogata come tradizionalmente “femminile”, essendo tanti i temi e gli interessi attraverso i quali si dipana il filo del suo discorso poetico: la natura, il mare, gli affetti familiari, l’amore, il malessere per la crisi dei valori, il ricordo, il sogno, la ricerca costante della fede, Pallagorio e la terra di Calabria con i loro paesaggi, e l’ansia di giustizia sociale.

Non sono poche le poesie dalle quali affiora il malessere per il “dover vivere in città” (Ferragosto 1976). “Roma è un deserto / ed io sono l’arabo / senza oasi, senza cammello”. La città l’ha privata del contatto con la natura, a lei cara più di ogni altra cosa, delle sensazioni naturali come l’odore del pane:  “ non sento però l’odore del pane / sfornato né avverto le trasparenze / dell’aria, legata come sono / a questa follia cittadina. / Vivo tra roditori e pochi / uccelli che stentano” (Ballata del recuperare un senso).  In un’altra poesia che, a voler stabilire un legame con quella appena citata, quasi ne ripete il titolo, “Recuperare un senso”, la poetessa si domanda: “Chi mi restituirà / le albe e i tramonti / di queste giornate passate a Roma / sotto platani malati ?”  E in una poesia senza titolo, rivolgendosi alla madre, Ofelia chiede di raccontarle “della nebbia che avviluppa / la vigna / del colore dei pampini / e dei   ricci che feriscono / i funghi./ Raccontami / del focolare / dell’autunno / dell’autunno che qui / non riesco a trovare…”.

Le condizioni di vita cittadina possono farsi persino soffocanti: “Il mio spazio vitale / è così limitato. / Lo chiamano progresso / il vivere assiepati sui trams / a respirare veleno / di sudori stanchi…” (Inverno 1977).  Ed  ancora  in “Passeggiata a San Callisto”: “Oggi domenica 20 gennaio / mi trovo a passeggiare per la città deserta. / I miei simili sono tutti rintanati / come topi freddolosi nelle case…”.  Al senso di solitudine si accompagna la denuncia delle stranezze cittadine, come in  “La città”: “Ore otto. / Si  vuota la città: / da un buco / si riversa ad un altro./Ore due./Cammino inverso/altalena-travaso…”.  L’ansia di liberazione dal grigiore e dalla monotonia del vivere quotidiano si placa alla vista, ovvero al solo pensiero, del movimento e dell’azzurro del mare, con il quale  – come già in Montale e Bartolo Cattafi  – viene  a  coincidere la libertà stessa: “…Il pensiero del mare / ingigantisce il desiderio / di libertà : / libertà bianca ed azzurra / bianca e azzurra è la libertà” (La libertà è azzurra).  “…Maledetta città, piovra immane. / Finché lo stadio di assedio cessi, devono /  venire angeli con trombe furenti a sciogliere / i tentacoli che ci tengono legati. / Eppure, oh rabbia io so che ci sono orizzonti / e dune a perdere e palpiti. / Bisogna pure recuperare un senso…” (C’è un modo di essere uccelli che spaventa).  Nell’ultimo verso torna insistente il grido, già affiorato in altre poesie e volto a far comprendere la struggente necessità di restituire un senso alla nostra vita.

La casa si è trasformata in un “involontario carcere di vita”, nel quale si vive legati a “mille catene tormentatissime” (Canzone disperata). Forte esplode il desiderio di rompere tali catene: “Per tutti i pendii del mondo/per i capelli primitiva voglio trascinarmi / lontano, e raschiarmi dalla mente questa falsa melma / di cognizioni e poi librarmi come un grande / uccello oltre la città nell’azzurro / che a tratti trema sulla marina. / Oh come il mare risolve ogni cosa” (C’è un modo…). L’insoddisfazione ha una momentanea sosta, se cede il passo al senso di abbandono, ovvero alla perdita dell’identità: “Non sapere dove andare / da dove venire / non mettere radici mai./ incantarsi ad un piccolo / sconosciuto lido / ed essere felici / che il treno fuggendo / porti lontano, ogni possibile indugio” (Ballata minore).  Oppure attraverso il sogno: “Io sogno una casa / su una piccola collina / e di fronte il mare d’inverno /… e poi vorrei / che passasse un treno e non avere / voglia nemmeno di guardare” (Ballata del mare d’inverno). Il treno è qui a rappresentare il mondo dal quale si vuole fuggire.

La vita sognata, il mondo sognato sono migliori, certo, della vita e del mondo reali.  E’ la vita odierna con i suoi fastidi e le persone invadenti ad impedirci di aderire con l’intensità necessaria alla realtà, alla natura, a farci cadere nel sogno: “Ah sì, sono contemplativa, / certo la vita di oggi / così caotica…/ Invece qui il lago / il silenzio, il respiro della sera /… era meglio socchiudere / gli occhi e sognarselo questo grigio / argenteo, solitario lago di Bracciano” (“Una gita a Bracciano, ottobre 1976).   “Io sogno / un albero / un albero grande / e un tavolo di pietra …” (Lettera alla madre), in cui sognare equivale ad esprimere un’ansia nostalgica verso il ricordo di cose lontane, forse perdute per sempre. Come perduta è la terra nativa, che in “Preghiera” viene definita grande amore: “Signore / io lamento la perdita del grande amore:/ il mare di grano, una striscia azzurra / la casa sommersa dagli ulivi / il fratello che mi sorride all’angolo / della strada…” .

Non meno sofferto si presenta il senso di fede manifestato da Ofelia.  Ogni aspetto della nostra vita odierna sembra congiurare contro la fede religiosa: Dio oggi è dimenticato. E’ questo il messaggio contenuto in “Gethsemani”, poesia premiata al  2° Concorso Nazionale CIAS del  1868, e in  “ Preghiera” : “… ancora  non ci avvediamo di essere ciechi, sordi e che tu muori / ogni giorno per noi…” Ed ancora in “Sabato Santo”:   “Ed è solo chimera / la sua benedizione / sulle case dove ardono  odii / come ceri per la veglia dei morti-vivi”.

Nella breve ed efficace lirica, “Sabato di maggio”, vengono fissati rapidi momenti, fatti di sensazioni sfuggenti: “A strisce nere / accarezza i tavolini /  la brezza fine di maggio. / D’illusioni una schedina / compilata / il gelato liquefa nei bicchieri. / Per cose a me improprie / fisso lontano lo sguardo”. In “Andavamo che l’alba era nascente” Ofelia si volge a descrivere, attraverso il filtro del ricordo, una scampagnata di altri tempi, così densa di particolari dal gusto molto delicato. Ne“Il diluvio” campeggia l’impetuoso temporale delle fragili terre di  Calabria, che tanta paura infonde negli animi col fango che si sgretola nelle  “rovinose fiumare”. La poesia nella quale si concentra un’alta drammaticità scenica è “Lamento per undici flauti”, dove vengono rievocati, con un tono che ha dell’epico, i momenti più intensi del funerale paterno. E il padre fu, senza dubbio, tra le persone più care ad Ofelia.

La poesia in cui è meglio raffigurata la visione vitalistica dell’amore è “Bocca che cerchi e non sai”, una delle più belle della silloge “Pallagorio”. L’amore coincide con l’essenza stessa dell’uomo. Ed, inoltre, come viene espresso in un’altra bella poesia: “… amare un corpo / è amare il celeste / le galassie / e gli infiniti spazi / e il vento amico / tutta questa vita” (“Il grande amore”).

Le corde della sensibilità di Ofelia non sono, tuttavia, orientate solo verso le intime ragioni del vivere, tante poesie essendo rivolte a temi sociali e, in particolare, agli eterni problemi del Meridione.  Sono le poesie nelle quali i versi divengono tesi e duri e si accendono i fermenti polemici.  In “Calabria 1974” un appello è lanciato con parole forti alla propria gente: “ Devi svezzarti; vincere il pianto…  Imparare a seppellire / i morti in silenzio / rimboccare le maniche / per ricomporre frane / e rovine. / Liberati dal peggiore dei mali: il vittimismo, perché / non è più tempo di sussurri…”  Ma il dolore, che ha trovato espressione in tanti canti meridionali, possiede una sua giusta origine ed un suo profondo significato: “Il Sud canta il suo dolore / perché altri intendano…” (“Il dolore del Sud”).  Sud e povertà fanno una cosa sola.  Quando la fatalità del terremoto s’incontra con il povero meridionale, che ha “la casa impastata con sputo / e sudore”, allora è morte e distruzione (“Sempre il Sud”).

Non poteva Giudicissi Curci mancare di affrontare in “Sinfonia di un popolo  morente”  il problema del destino della cultura albanese: “Le canzoni, le ballate, i versi / il sarcasmo audace, il coraggio / e le care usanze, i merletti / nel bellissimo bianco inamidato / si sono persi nel cammino / dell’emigrazione.” E conclude: “… se vogliamo, qualcosa forse / resterà di noi, del nostro cuore / dell’antico mito di un tempo”. Da “Elezioni 1975” traspare un senso di amarezza per il modo deludente in cui le vicende del Sud hanno avuto svolgimento: “Non è questo /il paese che ho sognato;/…. Non sono questi gli amici che ho stimato;/uomini irrigiditi / su posizioni antiche, /… Essersi liberati / dall’arroganza dei baroni / per asservirsi alla stupidità / degli istruiti”.  L’ansia di giustizia sociale, costretta a scontrarsi con la vuotezza e con l’ipocrisia delle discussioni salottiere sul problema dei poveri, è efficacemente espressa in  “Domani, domenica delle palme”, che trova la sua naturale conclusione nella concretezza dell’accorato imperativo evangelico riguardo alla spartizione dei pani. Di fronte all’inutilità delle parole – “la speculazione dialettica / ci ha intrappolati” –  la Giudicissi si sente come impotente.  Il tempo è passato senza accorgersene, mentre la stupidità politica le pare abbia spogliato l’uomo della sua dignità: “…mille lune tramontano / senza che ce ne avvediamo. /Siamo stati una vita/ affacciati alla finestra /intanto che fioriva il melo./ Uomini senza intelligenza / ci hanno spogliato di ogni dignità” (“Giugno 1976”).  Quello della sfiducia nella classe politica è motivo che troviamo anche in “Protesta secolare”, dove a fare da bersaglio, oltre alla “stirpe maledetta dei politici”, è “la sporca burocrazia / che tutto si strafoga / e beve, anche i sudori / di cui è impastato / il nostro pane quotidiano”.

“Che martirio nutrirsi/ di poesia!”: così si esprime in “Villa degli Scipioni” la Giudicissi Curci, per la quale il poetare non rappresentò certo un aristocratico passatempo, né tantomeno un’attività consolatoria.  Se consolazione le ha procurato la poesia, si è trattato sicuramente di amara consolazione, perché l’idea di poesia che è tesa ad affermare tutta la sua silloge è quella di una lirica lucida, penetrante, nient’affatto illusoria.  La poesia, per Ofelia, è scavo negli aspetti più profondi della condizione umana; è chiara coscienza di sé e dei propri moti interiori. Mai una volta Ofelia indugia sul tema del dolore per tendere verso quelle atmosfere zuccherose e patetiche, così predilette da tanta letteratura dell’Ottocento.  Né si lascia attrarre da alcun compiacimento estetico-formale. Nella poesia della Giudicissi nient’altro che delicate registrazioni del sentimento, fuggevoli moti del cuore o segrete vibrazioni dei sensi, espresse col candore innocente di chi sa di seguire le leggi universali della natura. Ma sono pure rappresentati, con crudezza visiva e accenti di ferma condanna, gli aspetti certo più deleteri del nostro vivere sociale.

Quanto alle scelte tecnico-stilistiche, va detto che caratteristica fondamentale della poesia di Ofelia è costituita dall’estrema riduzione del materiale retorico, nel senso che si rifugge dall’impiego di ogni artificio letterario e prevale piuttosto la tendenza verso una crescente essenzializzazione del discorso poetico.  Tutto viene rappresentato con naturalezza e sobrietà di linguaggio: non una sola parola più del necessario.  Il verso si presenta intenso, lineare ed essenziale, come intensa e lineare è la personalità poetica ed umana di Ofelia Giudicissi Curci, così ricca di sensibilità e di capacità introspettiva.

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