Strage di fine estate di Giuseppe Noce

       L’intento perseguito da Giuseppe Noce nel romanzo “Strage di fine estate” che, stando alla citazione riportata in basso alla copertina,  risulta incentrato sulla mafia, non consiste certo nell’aprire nuove piste interpretative su un fenomeno così complesso e, tra l’altro, indagato ormai in ogni sfaccettatura fin dai suoi primordi.  Il proposito dell’Autore non risulta neppure quello di dar vita all’ennesima narrazione di tipo poliziesco o del cosiddetto genere giallo, di consueto volta semplicemente a divertire il lettore attraverso situazioni e vicende rocambolesche o col classico omicidio misterioso, che trova la sua soluzione nel finale.

     La genesi del romanzo, com’è proprio della migliore tradizione letteraria, sembra piuttosto ispirata invece dal nobile intento, che ben si attaglia alla funzione svolta nella vita dall’Autore, di far cogliere la vera essenza della realtà sociale di una piccola comunità meridionale, ovvero di analizzare gli stereotipi culturali, la mentalità e i più diffusi comportamenti individuali e collettivi, che da sempre costituiscono l’humus su cui attecchiscono l’illegalità, la corruzione e, più in generale, la cultura mafiosa.

    Giuseppe Noce, nella sua opera, non usa certo giri di parole, per delineare come stanno realmente le cose, né preferisce edulcorare la realtà rappresentata per il timore di essere accusato di esagerazione o di aver voluto fare di tutta l’erba un fascio. Si è semplicemente attenuto alle proprie capacità d’intuito e di osservazione,  preferendo non ricorrere ad alcun infingimento, ma guardare in faccia alle dinamiche reali, così come le stesse si colgono quotidianamente soprattutto dalle nostre parti, sia  nell’operato delle figure istituzionali che in quello dei comuni cittadini.

     La verità – afferma l’Autore in una delle più intense pagine del suo breve romanzo – è che il tessuto sociale di tante “piccole e grandi città” del Meridione risulta profondamente inficiato ormai dalla confusione, dall’omertà, dall’ipocrisia e dall’egoismo familistico, così che l’ambiente è divenuto a vari livelli “adatto perché si facciano avanti i peggiori: gli scansafatiche, i disonesti e gli scaltri criminali”, che continuano a “gestire il potere per la dabbenaggine dei più che preferiscono rintanarsi comodi sui divani delle loro case, pensando a un futuro migliore che non verrà. (…) Il disonesto è osannato come salvatore della patria, mentre l’onesto tinteggiato da idiota, perché, dicono, non sa vivere in questo bel mondo di furfanti”.

     Trattandosi di una narrazione svolta in prima persona, la rappresentazione degli accadimenti e la descrizione dei diversi ambienti formano un tutt’uno con la visione stessa del protagonista, un giovane poliziotto che, stanco di stare inutilmente dietro ad una scrivania a curarsi di scartoffie burocratiche e desideroso invece di rendersi effettivamente utile alla società e di dare un contributo al cambiamento delle cose, decide d’imprimere una radicale svolta alla sua vita, sottraendosi ai vezzeggiamenti dei genitori e tuffandosi “nell’occhio del ciclone”.  Va, così, a fare il Commissario in quella che chiamerà, per tutto il corso della narrazione, la “piccola città confusa”, nella quale, pur se fra ostacoli e difficoltà di ogni genere, vorrà lasciare un tangibile segno della grande volontà di cambiamento, la quale risulta  alquanto viva tra i cittadini giusti e onesti che, seppure pochi, non mancano mai in qualunque gruppo sociale.

     Ed è proprio sulle gambe del protagonista che viaggia il più forte e significativo messaggio del romanzo. Sarà, infatti, il Commissario Giulio a comprendere che, avendo ormai l’omertà, la paura e la complicità messo piede anche tra coloro che dovrebbero fare la lotta al crimine, come non pochi esponenti delle forze dell’ordine e del mondo giornalistico, bisogna adoperarsi col massimo della cautela e della prudenza, per fare concretamente piazza pulita di tutto il marcio che da  tempo si è  accumulato in abbondanza nella nostra società. Centrare, tuttavia, un così ambizioso obiettivo si può solo, se le forze sane del Paese, sia del mondo politico e istituzionale che della società civile, lo vogliano realmente e si coalizzino fra loro a tale scopo.

      Dal punto di vista tecnico-narrativo, il romanzo risulta agile e scorrevole, articolato com’è in dieci brevi capitoli, ciascuno dotato di titolo, e ai quali corrispondono le parti essenziali in cui si suddivide l’opera. Il tutto ruota intorno a quello che si può definire il nucleo centrale del racconto, il quale è costituito da un traffico di droga, la cui esistenza, dopo essere stata per lungo tempo ignorata per l’omertoso silenzio dei più e per la colpevole inefficienza delle istituzioni preposte alla lotta contro il crimine, è  fatto rimbalzare agli onori della cronaca da un plateale ed efferato omicidio, che scuoterà fortemente la coscienza della cittadinanza del luogo.

     Un aspetto significativo che si nota nel testo del romanzo è costituito dalla tendenza alla sentenziosità, da cui l’Autore è portato a fare ricorso, nel corso della narrazione, a frasi ad effetto, ovvero a sentenze, nelle quali vengono espresse le solenni verità e le fondamentali regole che fungono da vera e propria guida dell’agire del protagonista, come – ad esempio – le seguenti: “la vita è breve e bisogna fare meno errori possibili”; “vivacchiamo in attesa di salire sul treno giusto, intanto passano gli anni, le cose non cambiano, la corruzione galoppa”; “non è il male che fa rabbia, ma che lo si confonda con il bene”: “la forza della mafia sta tutta nell’inesorabile crudeltà del suo agire”.

      La frequente utilizzazione di termini tratti dal linguaggio colloquiale di tutti i giorni, da un lato, e di molteplici espressioni dialettali, dall’altro, rendono  gradevole e interessante la lettura di questo romanzo, al quale va, senza alcun dubbio, ascritto il merito di denunciare i più vistosi limiti e le grandi contraddizioni che sono da sempre all’origine del’immobilismo imperante nella maggior parte delle comunità meridionali.

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