Lettera IV a Franco

Caro Franco,

ci stiamo piano piano liberando dal soffitto per riprenderci il cielo. Dagli sbuffi della permanenza claustrale al diffondersi discreto dei rumori abituali nelle piazze e nelle vie dove ci riversiamo dimergolando come brilli. Abbiamo ora il permesso di andare ad abbracciare, senza rischio di contagio, altri esseri viventi, che non siano nostri congiunti o altri della nostra specie: voglio dire che appena usciti di casa, dovremmo andare ad abbracciare un albero, nel cortile, sul viale, nel parco. Meglio, se possibile, nella campagna vicina dove ridono più lieti in faccia al sole i fiori dei prati selvatici e gli alberi si accarezzano reciprocamente le chiome e cantano insieme agli uccelli. (Uno, non conoscendomi, caro Franco, potrebbe prendermi per un arcade!). Ricordiamoci che ci unisce agli alberi un rapporto ancestrale poiché la nostra specie è nata sugli alberi. Stringiamola così al petto la natura che abbiamo spesso maltrattato e depredato.

È un sabato di maggio, questo che declina dentro il parco non agibile ancora del tutto, e dove ora mi trovo. C’è un’aria soffusa di fragilità. La presenza di persone, non molte, rende l’atmosfera ancora più triste di quando l’ho visto completamente vuoto. Allora osservavo il tripudio arboreo rifulgente nel suo splendore senza l’assillo della presenza umana. Rispetto al mondo degli uomini, schiavi del proprio pathos, riflettevo sul mondo della natura governata da ethos sereno. E mi sentivo in armonia con la castissima santissima leggiadrissima natura che parlava ai miei sensi con calma familiarità. E pensavo al virus come artefice dello sconvolgimento dello spazio circostante. Ora questo spazio si anima angosciosamente di persone timide attente dimesse. Caro Franco, nei giorni pandemici abbiamo vissuto in uno stato di irrequietezza e instabilità. Torneremo ai nostri fasti quotidiani o alle nostre miserie quotidiane. Si ragionerà con lo statuto dell’efficienza a tutti i costi, come prima. Torneremo alla superficie delle cose come prima. Diremo parole mai dette? Prevarrà la calma dell’ascolto? Faremo cose mai fatte? O, passata la tempesta, tutti avremo in serbo come sempre la carta vincente dell’oblio? I Paesi più ricchi, continueranno a vivere di cannibalismo ai danni dei Paesi più poveri e a riempire il pianeta di armi e rifiuti. Non siamo una civiltà in crisi, che un giorno potrebbe ravvedersi e risorgere. Noi –  vaticinava una cassandra del Novecento, la poetessa Amelia Rosselli –  “Siamo già il cadavere della specie a cui apparteniamo”.

Sono sbigottito di vivere ancora. Mi sono conosciuto meglio in questi giorni? No. Non ho avuto tempo da dedicare all’incontro con me stesso. Mi sono confermato nella convinzione di essere stato sempre dalla parte del torto e di esserlo anche in questo frangente perché so per certo che è insensato il sacrificio della propria libertà intellettuale per assecondare volgari ambizioni. Ma so anche che la rettitudine si districa a stento dalle spire della disonestà e non lascia segni nella Storia. Mi distrae da questi insoluti pensieri lo squillo del telefonino con la voce di Irina che mi ricorda di comprare una lampadina led. Lascio il parco ed entro in un negozio di ferramenta. All’uscita sento una voce di bambino dietro le spalle: Posa l’osso, posa l’osso. È un pappagallo, forse più intelligente di quello della fioraia dell’altro giorno. Il titolare mi dice di non farci caso. Gli chiedo come si chiama. “Toto”, risponde il pappagallo. Resto stupefatto. Chiedo al titolare se conosce per caso Celine. Mi risponde di no ed esco. Franco, si chiamava Toto il pappagallo di Celine! Come me.

Mi rimetto sul corso molto ampio e con un sospiro di sollievo vedo per la prima volta le rondini che per lo libero ciel fan mille giri. Pensavo che fossero scomparse come le lucciole di Pasolini. E poi una sorpresa: vedo la gente, specie i papà con i bimbi sul collo, che guardano nella stessa direzione a levante dove sgorga l’arco di Dio. Per i credenti. Ricordo che nella tradizione biblica l’arcobaleno compare dopo il diluvio universale. Qui è apparso agli inizi della fase due. Benigna premonizione divina, dunque? Nel segno dell’arcobaleno JHWH sancisce un’alleanza col suo popolo: <> (Gen. 9,13). Oggi chi è il popolo di Dio? Solo i cattolici? L’Italia è un paese cattolico: ma si dovrebbe parlare meno di Dio e più di Gesù Cristo. Meno con gli occhi rivolti al cielo e più verso terra. Il Cristo non si incontra certo nei templi, nelle liturgie, nelle ascesi. Si incontra soprattutto nei poveri, nei malati, nei bisognosi, nelle vittime dello sfruttamento e dell’oppressione.

Rientro a casa. Quell’uomo, affacciato alla finestra che guarda nella mia direzione e quell’altro, che armeggia sul balcone, chi sono? Che fanno nella vita? Come hanno trascorso questo periodo? E i due colombi, sul tetto di fronte alla mia finestra, che tubano in continuazione? Da quanto tempo si conoscono? Sono giovani, anziani, vecchi? Se uno dei due s’ammala o muore, l’altro che fa? No, non mi interessa saperlo, né ho intenzione di chiederglielo, non voglio dialogare con loro. Tra i volatili, i colombi appartengono a quella specie che non sa cantare. E non mi piacciono gli uccelli che non sanno cantare. Un giorno ti dirò invece del dialogo tra me e un picchio muratore avvenuto l’estate scorsa al parco. Mi piacque tantissimo il suo verso. E pensai che il suo canto stormiva già prima di Buddha, Cristo e Maometto e continuerà a echeggiare anche molto dopo che le loro parole saranno cadute nell’oblio perché quello del picchio, del merlo, dell’usignolo, della cinciarella, del cardellino, dell’allodola, della cinciallegra non è un sermone, un’ammonizione, un comandamento, è solo canto. E in principio non ‘era la parola’ ma il canto di un uccello.

Non so invece, caro Franco, per quanto tempo ancora ti lambirà questa mia voce fuggiasca. Ora che Rosa dorme, e tace rannicchiato il silenzio, mi adagio nell’oblio di una felicità remota. E con pazienza aspetto nel sonno, me lo auguro, il sonno senza fine della Solitaria. Ma intanto, mentre annego attraverso la finestra con le tapparelle alzate in un lago di luce di luna, mi incanta un sogno, che era quello di Dante. Ed è questo: Franco, i’ vorrei che tu, Alberto, Mario, Pino//fossimo presi per incantamento// e messi in un vasel, ch’ad ogni vento// per mare andasse al voler vostro e mio;// sì che fortuna od altro tempo rio// non ci potesse dare impedimento,// anzi, vivendo sempre in un talento,// di stare insieme crescesse ’l disio.

Mio caro Franco, l’ho fatta lunga. Ma su chi dovrei riversare questi borbottamenti se non su di te?

Ciao, tuo Toto.

Monterotondo, maggio 2021

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