La cultura del politico

          A giudicare dai programmi in uso nei “Corsi di formazione politica”, organizzati da questo e da quel Partito, c’è da ritenere che la formazione culturale dell’aspirante politico non possa assolutamente prescindere dallo studio di discipline come la Storia contemporanea, il Diritto pubblico e l’Economia, né esimersi dal conoscere importanti argomenti come il funzionamento e le competenze di Comune e Regione; l’organizzazione del Sistema Sanitario Nazionale; la struttura dell’Unione Europea e i vincoli imposti dalla stessa alle economie nazionali; il ruolo dalla BCE nella gestione della politica monetaria; i principali Trattati Europei e le conseguenze della globalizzazione dei mercati; i cruciali aspetti della geo-politica del Mediterraneo; e via dicendo.

        Premesso che tra i politici ci sono differenti tipologie, come quella del semplice militante, o del componente di un organismo partitico o dell’amministratore, l’uno dei quali talvolta può coincidere con gli altri due, va detto che raramente i giovani che frequentano detti corsi un giorno entreranno realmente a far parte del mondo della politica, dal momento che ben altri sono i fattori[1] che decidono del successo e della longevità di un politico.

             La verità è che da sempre, per svolgere qualsiasi incarico di governo sia a livello nazionale che locale, non serve né aver superato alcun esame o concorso, né dimostrare l’effettivo possesso di una ben precisa serie di competenze, come invece si richiede per l’esercizio di una qualunque professione o per lo svolgimento di qualsiasi mansione tecnica. Decisivo risulta il peso specifico che, indipendentemente da meriti, titoli e valori culturali, si possiede all’interno del proprio Partito di appartenenza e che di fatto è considerato l’unico elemento valido per essere nominato Assessore o Ministro.

          Tuttavia, porre l’accento sull’assoluta incongruenza che di sovente si registra tra la cultura del politico e le competenze che lo stesso dovrebbe possedere nell’assolvimento di un incarico di carattere amministrativo o governativo non vuol dire che la politica debba sistematicamente affidarsi ai cosiddetti tecnici; come si fa nei momenti in cui i Partiti cadono nello stallo più completo o per l’irriducibilità degli interessi contrapposti, o perché la soluzione di gravi e impellenti questioni, continuamente rinviata, non giunge mai in porto.

      Va da sé che un governo tecnocratico o una repubblica dei filosofi, come quella auspicata da Platone, risulterebbe oggi inaccettabile, non solo perché in netto contrasto col principio democratico ormai considerato universalmente irrinunciabile, quanto per il fatto che la progettazione di una riforma non è mai qualcosa di meramente tecnico e comporta inevitabilmente la scelta di ben precisi interessi sociali da prendere in considerazione. In altre parole, ogni riforma ha a che fare con la politica e non è mai qualcosa di asettico, neutro.

         Sta di fatto che, sia nella prima repubblica che nella seconda, i motivi per i quali un dicastero ministeriale continua ad essere assegnato a un politico piuttosto che ad un altro molto raramente hanno a che vedere con i requisiti tecnico-culturali ritenuti indispensabili per lo svolgimento dello stesso. Parallelamente all’ulteriore crescita della scolarizzazione di massa che negli ultimi decenni ha investito la fascia universitaria, tra i politici è aumentato il numero dei laureati, ma continuano a difettare le competenze giuridico-amministrative e una visione quanto più completa delle problematiche relative al proprio dicastero o ramo di pertinenza amministrativa. Esemplare il caso di Nunzia De Girolamo, diventata dall’oggi al domani Ministro dell’Agricoltura – ma, a dire il vero, come lei tanti altri – e che in tempi recenti si è trasformata prima in ballerina di uno spettacolo televisivo, poi in giornalista di un talk show e oggi conduttrice in una Tv.

      Per una prassi ormai consolidata, il mestiere del politico s’impara perlopiù mentre lo si esercita e sono in tanti a credere che la principale dote dello stesso debba consistere nell’abilità comunicativa, specie in un’epoca come l’attuale in cui la narrazione della politica conta più del suo stesso agire.         Le realtà nelle quali più spesso capita d’improvvisarsi politico sono quelle a più alta densità di disoccupazione e di degrado socio-culturale, in cui tanti – giovani e meno giovani – pur non avendo mai manifestato alcun interesse per la politica, né alcuna tensione per le problematiche sociali, si accostano alla politica, al solo scopo di trovare una, seppure temporanea, soluzione alla mancanza di lavoro.  A giudicare dall’altissimo numero di liste e candidati che solitamente si registra nelle Elezioni comunali di dette realtà, grandi risultano le aspettative che comunemente si accompagnano alla decisione di candidarsi a Consigliere.

        Quanto alla mentalità e agli atteggiamenti tipici del politico italiano, spicca soprattutto l’illusione della propria superiorità e indispensabilità, da cui di conseguenza deriva la grande difficoltà ad abbandonare l’attività, dopo che la si è praticata per un certo numero di anni e, in special modo, dopo che si sono ricoperti incarichi di una certa importanza. La verità è che a difettare nella classe politica nostrana sono soprattutto l’umiltà e la capacità di autocritica. In altri paesi, una volta conclusa un’esperienza di governo e non avendo la stessa goduto di particolari apprezzamenti, si va a casa come se nulla fosse e si cambia tranquillamente registro. Primi ministri come Tony Blair, Gordon Brown, David Cameron, Sarkozy, ecc., una volta usciti di scena, non ci sono più rientrati; al contrario di quanto ordinariamente accade In Italia.

      Un’altra vistosa caratteristica del nostro mondo politico è costituita dalla rissosità, che non riguarda solo esponenti di parti politiche opposte. Persino tra quelli di uno stesso Partito capita piuttosto di rado che fioriscano sentimenti come l’amicizia, la lealtà, il disinteresse e la fedeltà; trovano, invece, terreno di coltura rivalità, divisioni, cospirazioni e tradimenti. Le lotte intestine a color bianco sono perlopiù scontri tra correnti, che si combattono a scopo di mero potere.

       A voler disegnare una scala dei valori da cui l’attività dei politici odierni è ispirata, sullo scalino più alto, stando a quanto a parole risulta idealisticamente professato dalla maggior parte di essi, bisognerebbe porre il benessere della comunità di appartenenza. Anche se ciò che realisticamente sembra stare da sempre più a cuore agli stessi sono, innanzitutto, le sorti della carriera personale e, secondariamente, quelle del Partito a cui sono inevitabilmente legate le proprie.

       I politici di provincia hanno l’abitudine di trascorrere la più parte del tempo libero per strada, dove si pratica il piacevole esercizio della chiacchiera, del pettegolezzo e dell’informazione spicciola.  I rari momenti assembleari si riducono perlopiù a discussioni sterili e di scarsa ricaduta sulla qualità dell’attività politico-amministrativa e nelle stesse intervengono quasi sempre i soliti, o per confermare la propria forza muscolare, o per orientare le eventuali decisioni del partito verso direzioni di proprio gradimento.

      Certo, per correggere le tante cose che non vanno e per invertire radicalmente la rotta fin qui seguita, ci sarebbe bisogno di riavvicinare alla politica attiva tutti coloro che, delusi, amareggiati e ormai privi di fiducia, in questi anni se ne sono allontanati. Il modo sicuramente più efficace ma quasi impossibile sarebbe quello di mandare a casa tutta la vecchia guardia, ovvero gli ormai incorreggibili portatori della vecchia cultura, della vecchia mentalità e dei vecchi modi di fare politica.

[1] Si rinvia a “Come si fa carriera politica in Italia”.

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