L’ospite intruso di Toto Carnuccio

     Per cogliere l’essenza della silloge intitolata “L’ospite intruso”, che per la sua singolarità non trova riscontro in tutta la tradizione letteraria, occorre tener presente che tra le ragioni di fondo della sua ispirazione non c’è l’intento di cimentarsi con un esercizio poetico fine a se stesso o con una prova meramente calligrafica, dal momento che Toto Carnuccio non concepisce la poesia né come un prodotto artistico di mera bellezza, né come uno strumento di svago o di consolazione, ma come coraggiosa e fedele adesione all’effettiva condizione esistenziale dell’uomo: “Non imboccherò facili sentieri/ che mi portino in oasi/ che non saprei abitare./Qui non c’è il rischio/ che evapori l’umano”(XX). Attraverso le sue centoundici liriche la silloge apre, infatti, uno spaccato sulla dolente esperienza esistenziale vissuta da una coppia di coniugi anziani, l’uno legato all’altra da un affetto, la cui dolce intensità è venuta ancor più accrescendosi per il  sopraggiungere di un “ospite intruso”, un raro e misterioso morbo che, colpendo l’amata consorte, la costringe a vivere in uno stato di limitata coscienza.

         La congiunzione tra il dolore e la memoria, che si concreta attraverso l’atto poetico, costituisce l’importante e originale contrassegno della silloge, nella quale a fungere da filo conduttore e da fonte dei molteplici spunti da cui risultano intessute le liriche è appunto la memoria. Si tratta di ricordi legati a semplici eventi o a forti sensazioni, come quella dello spavento per la figlioletta sfuggita improvvisamente di mano: “Lo serbo nel profondo il tuo spavento/ ché la carie del tempo non si ottura” (LXXXIII); o a qualche intenso momento della vicenda amorosa, come quello teneramente rievocato nella lirica: “Senza dire niente a nessuno/ (…) giungeremo nella radura/ dove ti rincorrevo a perdifiato / poi a ridosso del bosco nell’alcova/ perdevi i sensi” (XXI). Dall’insieme dei ricordi emerge, inoltre, il rapido trascorrere del tempo: “Secoli sono passati da quando/ la nostra prima dolce alba si mosse/ con la tua voce: sarò la donna / che dominerà il tuo cuore” (LI).

      Nel cercare di aderire quanto più fedelmente alla triste realtà rappresentata, la silloge assume una struttura quasi diaristica, rappresentando la vita dei due coniugi durante un ben preciso arco di tempo, del quale si esplicitano l’inizio e la fine, oltre che gli aspetti più toccanti. Le giornate sono cadenzate dall’andamento del morbo, il quale fa la sua prima comparsa nella lirica (VIII): “Dal giorno in cui il morbo ti ha acciuffato/ sei una Rosa sola esposta al vento”, per poi prendere il nome di intruso nella lirica (IX): “E ho visto la tua fronte china/ davanti all’intruso/ che è venuto a prendersi tutto / di te”, finché i due termini saranno affiancati l’uno all’altro nella lirica: “In quest’empio agosto/ compie sette anni l’ospite intruso” (XVI).

        Ciò che il morbo non è riuscito a scalfire neppure minimamente è l’intenso legame tra il poeta e l’amata, il cui ininterrotto pianto si traduce nell’accorata supplica di restarle sempre vicino, mani nelle mani: “Miliardi di volte mi hai chiamato/ in questi anni. /Solo il mio nome è il tuo universo” (XXIII). Il poeta si è così assuefatto al “pianto-fanciullo” (XLIII), da ritenerlo ormai “coltello e violino insieme” (LV).

      Uno dei più significativi simboli della silloge è quello costituito dall’olivastro, al quale il poeta rivolge solenni domande sulla vita, perché in esso sa di trovare la saggezza che altri semplicemente ostentano, e che dalle fronde gli risponde che la vita è sospesa “tra il reale e il sogno”. Ma l’olivastro è, nel contempo, il simbolo della “verde sovrumana indifferenza” e della forte resistenza alle intemperie delle stagioni, ossia “all’acqua al vento all’afa alla tempesta”, in cui sono raffigurate le intemperie dell’umano vivere (LXX). Allo stesso il poeta confida un segreto che lo prega di non diffondere: “Chi mi ha amato tanto, mio olivastro, /ora è in prigione e piange. /giorno dopo giorno, m’innamoro /del suo dolore. Ma non dirlo in giro”.

        Altro simbolo è quello dei fantasmi, dei quali il morbo si serve per assediare di continuo la mente di Rosa e il cui termine ricorre per ben otto volte nella silloge: “Tutta la notte hai pianto un pianto lieve/ ché i lampi dei tuoi fantasmi erano brevi” (LIX); “Vagolo insieme a te, / taciuta voce, mani nelle mani,/ cercando di blandirli i tuoi fantasmi” (XCIX); “O notte, non stramare/ i fantasmi questa notte”; “Di notte annaspo tra sciami di fantasmi/ infermo anch’io” (CI).

      Pure nella lirica del congedo (CXI), il poeta si richiama all’immagine dei fantasmi, raffigurati nell’atto di una “danza” che simboleggia il crudele sberleffo degli stessi nei confronti del suo “canto doloroso”. T. Carnuccio, provando a immaginare il proprio futuro, lo sente come “un’alba sempre più fredda”. Alla fine del componimento, fa un accenno prima alla percezione mancante dell’amata: “Nulla senti di quel che dico e scrivo”, poi alla docilità con la quale egli si appresta ad accogliere ogni giorno che il destino riserverà ad entrambi: “Indosso docilmente ogni tuo giorno”; per annunciare, infine, al lettore la conclusione della silloge, definita nient’altro che un “vano soliloquio”: “questo vano vano soliloquio/ cessa qui”.

        Il merito che va ascritto a Toto Carnuccio è quello di essere riuscito ad incarnare ogni lirica in uno stesso drammatico vissuto esistenziale e a realizzare un’opera poetica di indubbio valore artistico, interamente pervasa com’è da una pietas indugiante e meditabonda e in quanto arricchita dalla bellezza del lessico, nel quale risultano magistralmente accostate parole semplici, tratte dal linguaggio comune, ad altre di rarissimo uso e dal sapore marcatamente letterario, come lamica, sventato, luminio, dirute, sfiamma, s’abbruna, sgronda, strinava, illune, gargia, repe, fiorrancini, dismatriato, rabido, racemo, giunchiglia, l’abbrivo, zana, rama, sfrombola, granivano, stramare, ecc.

        Un evidente pregio della silloge è costituito dall’ottima tessitura delle liriche, le quali sono impreziosite dalla ritmicità musicale del verso e rese espressivamente efficaci dall’utilizzo di figure retoriche sempre appropriate. Nella lirica LVII, ad esempio, il poeta, nel ritrarre plasticamente l’inesorabile volgersi del tempo, fa ricorso ad un climax crescente, formato da tre verbi, “s’alza”, “impone”, “lancia“, che vanno a riverberarsi, ora, sui più diversi elementi naturali, come “l’aria”, “l’acqua”, “la terra” e “la cetonia dorata“, scelta a simbolo del più umile genere di esistenza; ora sulle contrapposte tipologie degli uomini, che il poeta  essenzializza riducendole a tre: gli “innocenti”, i “massacratori” e “quelli con un alto grado di falsità”.

       Altre figure retoriche a cui viene fatto ricorso sono, oltre la metafora e la similitudine, quelle dell’iperbole, della sinestesia e del chiasmo, come è dato riscontrare, ad esempio, nella lirica , “Lungo è l’inverno e l’umido germoglia” (LXVI), nella quale si colgono le due belle metafore dell’ “inverno” e dell'”umido“, l’’iperbole “si abbassa il cielo“; l’originalissima sinestesia “cereo lamento”, in cui la sensazione visiva del pallore della cera è accostata al sonoro pianto di Rosa e, infine, il chiasmo di rara bellezza: “fine del viaggio che si avvicina” e “s’allontana il miraggio che ti accolga“. Altrettanto felici le figure retoriche di suono, come rime, rime al mezzo e allitterazioni, attraverso cui il poeta accentua la musicalità di ciascun componimento.

       Un uso ripetuto dell’anafora è dato cogliere, invece, nella bellissima lirica “Un homeless che delira supino” (LVIII), con il quale il poeta s’identifica, nel momento in cui verrà per sempre abbandonato dall’amata. Detto componimento, che risulta incentrato su una lunga serie di maledizioni lanciate dal soggetto sociale più emarginato del nostro tempo, appunto il senzatetto, si traduce in una lunga serie di bersagli a cui le stesse vengono rivolte e che sono tutti introdotti dall’anafora “al“.

   La silloge – a volerla definire sinteticamente con le parole stesse di Carnuccio – è, dunque, una continua carezza all’amata la cui sofferenza rende quotidianamente più dolce l’animo del poeta: “Ah, poterti dire un giorno /che mi ha donato dolcezza/ il tuo dolore” (LXXI).

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