Errori, pregiudizi e condizionamenti più ricorrenti nella relazione educativa

                Se la scuola non vuole continuare a perdere colpi nei confronti dei sempre più agguerriti media dei giorni nostri, deve migliorare la qualità dell’interazione educativa e intensificare la sfera emotiva della stessa. Occorre, innanzitutto, liberare il dialogo, che avviene tra le pareti scolastiche, dalla noiosità, prendendo di mira innanzitutto il linguaggio, il quale in più casi risulta ripetitivo, o eccessivamente ridondante, o non efficacemente controllato, o poco comprensibile. “La complessità dell’interazione in classe crea spazio a una vasta gamma di fraintendimenti culturali e di pregiudizi inconsapevoli”[1]. Parlare chiaro significa “isolare il contenuto informativo essenziale di un discorso per poi tradurre questo contenuto in un linguaggio accessibile all’interlocutore”[2], ovvero alle caratteristiche linguistiche e cognitive del discente.

                L’attenzione – si sa – è figlia della motivazione, ovvero dell’interesse e della curiosità, che, oggi più che mai, dipendono, non tanto dalla tipologia dei contenuti, quanto dalle strategie e dai metodi di apprendimento. “La stimolazione della curiosità naturale dell’allievo è la chiave di un efficace apprendimento”[3].  Bisogna imitare le forme comunicative attualmente più in voga, semplici, incisive ed efficaci, riuscendo a coniugare il processo di apprendimento con una quanto più duratura sensazione di piacere. L’insegnante che fa abitualmente uso di un linguaggio poco chiaro, gira continuamente intorno ad un medesimo concetto, non tiene conto alcuno della competenza linguistica dei ragazzi, finisce inevitabilmente con l’allentare la loro attenzione e con l’inibire ogni possibilità di dialogo con gli stessi. Se poi si serve, quasi in continuazione, della tipologia della lezione frontale in una classe della scuola dell’obbligo, in cui la stessa risulta quanto più impropria e inopportuna, addio interesse e attenzione. “La lezione incentrata sull’insegnante, magari con un po’ di discussione alla fine, è il modello largamente reputato come il più efficiente (…) per comunicare le idee relativamente complesse delle materie della scuola secondaria”[4].

         Un pregiudizio nel quale di sovente incorrono, quasi inavvertitamente, gli insegnanti, è quello di ritenere alcuni allievi a vari livelli più capaci di altri sulla base di semplici e inaffidabili indizi, quali lo sguardo continuamente rivolto verso il docente, la maggiore loquacità, il prendere appunti, ecc. Spesso si rivela vero piuttosto il contrario e a svelarlo sono le prove scritte di verifica, dalle quali, in più di un caso, emerge che ragazzi, i quali parlano poco in classe e interloquiscono poco o niente con gli insegnanti – vuoi perché timidi, vuoi perché introversi – riflettono capacità intellettive più elevate di coloro che si sono subito posti in luce nei modi sopra indicati.

           Va da sé che l’incidenza delle aspettative degli insegnanti riguardo all’esito del profitto dei ragazzi risulta enorme.  Capita a volte che l’insegnante, sulla base di semplici impressioni o di previsioni infondate, sia portato a nutrire aspettative negative nei confronti di taluni soggetti, i quali, preso atto di detta percezione, perdono completamente la propria autostima. Le aspettative possono essere sia palesi che occulte, sia volontarie che involontarie, ma – comunque esse siano –  agiscono come un potente meccanismo di condizionamento sul comportamento degli studenti. Le aspettative possono essere comunicate, ad esempio, da alcuni atteggiamenti mimico-facciali, come è stato già detto.  L’amichevolezza e il compiacimento sono atteggiamenti che comunicano allo studente aspettative positive nei suoi confronti e, di fatto, fungono da fattori d’incoraggiamento.  La forma di aspettativa indubbiamente più nota è quella che va sotto il nome di “effetto pigmalione”, in base al quale “una volta che si sono create in un individuo determinate aspettative nei confronti di un altro individuo è molto probabile che il comportamento di quest’ultimo finisca per adeguarsi a quelle aspettative”[5].

       Ci sono poi pregiudizi educativi attraverso i quali il docente è volto a nascondere il fallimento della propria azione. Criticando esageratamente i propri allievi, il docente cerca, infatti, di esorcizzare il suo insuccesso, nel senso che attribuisce tutta la colpa di quest’ultimo ad essi e non a se stesso. Certo, non è facile riconoscere i propri errori e ammettere pubblicamente che il fallimento va ascritto anche a limiti e a manchevolezze della propria azione educativa. Più comodo, oltre che più facile, è accusare gli allievi per tutto ciò che non va nel rapporto educativo e nel profitto. Nella scuola ci si comporta così, si può dire, da sempre.

        Un altro pregiudizio è quello secondo il quale quanto più si è esigenti con i ragazzi, tanto più ottimali saranno i risultati a cui essi possono pervenire. Si arriva a considerare come del tutto automatica detta equazione e, talvolta, si preferisce non tenere conto che il successo scolastico dipende invece dall’efficacia delle strategie didattiche messe in atto e dalla qualità dell’insegnamento. L’equazione tra l’elevata soglia di quanto si esige da parte dei ragazzi e quella del loro profitto sembra, in fondo, fare il paio con la supposizione, ancora alquanto diffusa, che “più ampio è il programma svolto, più numerose risultano le cose apprese dai ragazzi”, come se nella vita scolastica la quantità si potesse considerare un valore superiore a quello della qualità.

              Di altri pregiudizi risultano invece portatori gli stessi studenti, i quali li hanno profondamente interiorizzati già nel corso dell’infanzia attraverso l’educazione familiare. “La ricerca psicologica dimostra che c’è un’alta correlazione fra lo stile educativo dei genitori e le caratteristiche comportamentali dei figli”[6]. Ripetere continuamente al proprio figlio che egli è fatto in un certo modo; che non sarà mai capace di fare alcun progresso; che, quando parla, dice sempre cavolate; che non capisce niente e altre cose del genere, alla fin fine produce l’effetto di convincerlo che ciò è assolutamente vero e che ogni tentativo di cambiamento da parte sua risulterebbe inutile. Secondo F. Montuschi, “le continue ed estenuanti critiche portano inevitabilmente la persona a mettersi da parte, a non esprimere i propri pensieri, i propri bisogni, i propri sentimenti (…) Anche nella scuola vi sono allievi che vivono con angoscia l’idea di commettere un errore, di essere derisi, di ricevere una critica o una valutazione negativa”[7]. Tutto questo ha riflessi negativi sia sul rapporto insegnante-allievo che sui risultati scolastici.

             Spesso nella scuola capita, inoltre, d’impostare simbioticamente la relazione educativa, per cui l’insegnante e il discente “interagiscono in modo da sostenersi reciprocamente ed hanno così l’illusione di strutturare un rapporto ottimale”[8]. Ma detto tipo di relazione risulta fortemente dannosa dal punto di vista didattico-educativo, in quanto l’insegnante, che si sostituisce all’allievo nella soluzione di un problema, ne frena irrimediabilmente lo sviluppo, inducendolo a ritenersi incapace di effettuare determinate prestazioni.

        La sensibilità e l’acutezza educativa dell’insegnante devono essere tali, da consentirgli d’interpretare nel modo quanto più corretto i comportamenti manifestati dai ragazzi all’interno della relazione educativa e di stanare così gli eventuali inganni che possano essersi annidati negli stessi. Il comportamento di sfida, ad esempio, può facilmente trarre in inganno, dal momento che si è portati comunemente a leggerlo come espressione di forza e di spavalderia, mentre invece nasconde fragilità, disperazione o bisogno di aiuto. Lo stesso costituisce, oltretutto, un ostacolo all’adozione di una positiva relazione, che non può non riflettersi sullo stesso profitto.

         È compito del docente prevenire i comportamenti di sfida dei propri allievi, fornendo loro “occasioni di successo sociale e la possibilità di essere apprezzati, scelti ed amati dai compagni”[9]. L’insegnante non è uno psicologo, ma la sua professionalità non può consistere nella sola conoscenza delle sue discipline. Deve imparare a conoscere quanto più profondamente il soggetto che apprende e le dinamiche e i significati del suo comportamento, che a volte appare incomprensibile e misterioso. Vi sono, ad esempio, ragazzi che non sanno difendersi, che si mostrano cioè del tutto passivi di fronte a qualunque sopruso; altri sono incapaci di chiedere aiuto, si chiudono nel loro isolamento, si autoemarginano e non sono disponibili a condividere con nessuno –  neppure con un genitore –  il peso che portano addosso.

       Per tutto questo, grande risulta l’importanza che la relazione educativa riveste sotto più di un profilo nell’attività d’insegnamento. Ma la relazione, perché sia quanto più fruttuosa sotto il profilo educativo, deve essere basata sul continuo dialogo.  Le domande dei ragazzi sono quanto di più prezioso ci sia nella relazione, in quanto possono diventare elementi utili di osservazione e di modificazione della relazione stessa: “possono in particolare mettere in evidenza non solo gli analfabetismi relazionali, ma anche un difficile rapporto che la persona ha con se stessa, la sfiducia nelle proprie risorse, (…) i sospetti, le attese, le pretese verso gli insegnanti (…). Porre domande e dare risposte ad esse diventa un momento essenziale del rapporto, non solo per <<dialogare>>, ma anche per educare alla relazione interpersonale e sociale”[10].

        Ci sarà pure una ragione, se gli insegnanti destinati ad essere più a lungo ricordati dai propri allievi risultano proprio coloro che sono riusciti ad impostare con gli stessi la relazione educativa in un modo unico ed esemplare.

[1] S.Brint, op. cit, p. 312

[2] L. Lumbelli, op. cit.,p. 232

[3] S.Brint, op. cit., p. 314

[4] Ivi, p. 318

[5] L.Lumbelli, op. cit., p. 122

[6] SSIS della Toscana – Modulo di Psicologia – Pisa – Unità 4

[7] Ivi

[8] Ivi

[9] Ivi

[10] Ivi

BIBLIOGRAFIA

M.A.Galanti, Affetti ed empatia nella relazione educativa, Napoli, Liguori Editore 2002

Franco Federico, Scuola nuda, Roma, A. Armando, 1989

L.Lumbelli, Psicologia dell’educazione. I. La comunicazione, Bologna, Il Mulino,1982

SSIS della Toscana – Modulo di Psicologia – Pisa – Unità 3, La motivazione scolastica

Trisciuzzi,Fratini,Galanti, Dimenticare Freud? L’educazione nella società complessa, Firenze, La Nuova Italia, 1998

R.Guardini,  Le età della vita, Vita e Pensiero, Milano 1992

Corradini, I giovani e la loro cultura, sito Internet della P.I.

SSIS, Unità  didattica 5 Anno II

S.Brint, Scuola e società, Bologna, Il Mulino 1999

Premessa – Stili educativi – Unità didattica 4 – Psicologia

SSIS della Toscana – Modulo di Psicologia – Pisa – Unità 4

Montuschi in “Relazioni e conflitti”,sito Internet della P.I.

Il presente lavoro è apparso in formato integrale e con il titolo “La relazione educativa per le dinamiche nei gruppi di formazione” sulla Rivista: Riforma & Didattica tra formazione e ricerca, Falzea Editore, Anno X, N.2, marzo-aprile 2006, pag.53

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