Fondamenti e principi di un’efficace e corretta relazione educativa

                   La relazione docente-discente risulta caratterizzata dalla differenza dei ruoli, a ciascuno dei quali risulta affidato un processo l’uno diverso dall’altro. Tuttavia, “tali processi sono sì interconnessi tra loro, ma non intercambiabili”[1]. L’asimmetria del rapporto educativo non consiste solo nella diversità dei due processi in esso implicati, d’insegnamento e di apprendimento; ma è basata anche sulla diversa età dei soggetti.

                Come ogni altro tipo di relazione asimmetrica, quella docente-discente risulta esposta, specie nelle realtà di accentuato degrado sociale, civile e culturale, ad abusi di potere, a forme di arbitrio o di vera e propria mancanza di rispetto della persona umana.  In simili relazioni, si è portati il più delle volte a pensare che tutti i diritti stiano dalla parte del ruolo più forte e che al ruolo più debole non spetti altro che armarsi di santa e buona pazienza. La verità è che in questo genere di relazioni i diritti appartengono ai beneficiari del servizio, mentre gli obblighi incombono quasi tutti sull’altra parte. L’asimmetricità è tale da non consentire, in nessun modo, al soggetto posto nel ruolo debole di scongiurare o, comunque, di ostacolare il determinarsi di situazioni spiacevoli nei suoi confronti da parte del titolare del ruolo forte: “Il bambino, ma anche l’adolescente, non sono infatti in grado di difendersi, di accusare fondatamente”.[2]

                Ciò di cui si può essere certi è che dalla qualità della relazione docente-discente, ovvero dalla sua impostazione positiva o negativa, dipende l’esito di ogni altro aspetto del processo educativo. Accade addirittura che anche quando gli insegnanti non sono consapevoli di questo fatto, ovvero quando “considerano il proprio apporto come meramente legato all’insegnamento di una o più discipline rispetto alle quali si pongono come esperti, essi esercitano un potere di carattere affettivo tanto più importante in quanto non esplicitato come tale, agito più che pensato e progettato e, quindi, passibile in misura assai minore di riflessione critica”.[3]

               L’insegnante è portato invece, nella generalità dei casi, a ritenere che ad impressionare di più lo studente sia la “bella lezione” e che da questa discendano in modo quasi automatico l’apprezzamento e la stima da parte degli studenti e delle relative famiglie nei suoi confronti.  E’ portato, cioè, ad attribuire grande importanza alla sua preparazione culturale, ignorando che lo studente risulta attratto dal suo stile educativo e dai suoi modi relazionali e che inevitabilmente è portato a confrontare questi con quelli degli altri adulti già conosciuti o più familiari.

               Sotto questo profilo, si può con certezza affermare che le relazioni che si sperimentano a scuola svolgono una sorta di funzione compensativa in ordine allo sviluppo delle capacità relazionali del soggetto educando. Se, pertanto, le relazioni  già sperimentate al di fuori dell’ambito scolastico, comprese quelle familiari,  sono state  “inadeguate dal punto di vista affettivo,  (…) la possibilità (…) di usufruire di modelli di comportamento alternativi rispetto a quelli disorientanti o rifiutanti fino a quel momento sperimentati, permette di recuperare attraverso la nuova identificazione, le parti migliori di sé, le proprie risorse e disponibilità relazionali e, soprattutto, la capacità di non perdere la speranza come atteggiamento progettuale nei confronti del futuro”[4].

          Alla luce di quanto affermato fin qui, non trova, ai giorni nostri, giustificazione alcuna il fatto che i docenti ritengano ben altri i compiti più importanti della propria professionalità e che ignorino la grande incidenza esercitata dall’interazione educativa sulla formazione umana, morale e civica del discente. “Per un insegnante, rendersi conto che non si può non essere – lo si voglia o meno – coinvolti nella relazione con i propri allievi anche dal punto di vista affettivo ed emozionale, vuol dire prendere atto che le proprie parti interne, a loro volta, possono essere proiettate sul soggetto in formazione. Significa, cioè, capire che quando si è educatori (…) hanno un peso, non tanto e non solo la cultura che si possiede o la tecnica didattica che si è in grado di dispiegare, ma la propria umanità, il proprio modo di leggere il mondo, di formare gerarchie valoriali, di dare significato alle esperienze”[5].

       Non va dimenticato che, se l’incontro con l’altro costituisce un’esperienza carica di significato per ogni individuo, qualunque sia la sua età, ciò stesso risulta ancor più decisivo per un soggetto in via di formazione, come sono tutti coloro che frequentano la scuola sia primaria che secondaria. Infatti, “il desiderio di raggiungere una maggiore autonomia dall’ambiente familiare stimola nell’adolescente il bisogno di ampliare le proprie conoscenze, di costruire relazioni significative con i docenti che spesso vengono assunti come modelli di identificazione, in una fase evolutiva tradizionalmente dominata dall’insicurezza, dalla perdita dei legami oggettuali dell’infanzia, dalla trasformazione della propria immagine corporea”[6]. Sotto il profilo psicologico, si potrebbe aggiungere che la relazione con l’insegnante rappresenta per l’adolescente l’occasione più propizia per attuare la “desatellizzazione” dalla famiglia, come è definita da Ausubel.

     Alcuni obblighi che il docente è chiamato a rispettare, nel tentativo di relazionarsi col discente nel modo quanto più corretto ed efficace, attengono alla sfera educativa, altri a quella didattica. Entrambi sono dettati dal buon senso o dallo spessore morale e professionale dell’educatore. Come in ogni altra forma di rapporto, è la fase iniziale a rivestire particolare importanza per il semplice fatto che è durante la medesima che comincia la ricerca intorno all’uno (l’insegnante) da parte degli altri (gli studenti) e viceversa. E’ il momento, insomma, nel quale “si gettano le basi della relazione di insegnamento/apprendimento”[7].

       Alla sfera propriamente educativa è riconducibile l’obbligo della coerenza, il quale impone al docente di non esigere dal suo discente comportamento diverso da quello da lui stesso adottato ed esibito col proprio quotidiano esempio. La coerenza, si sa, è dote alquanto difficile e rara e i ragazzi riescono ad essere giudici severi ed implacabili di contraddizioni e incoerenze dei propri insegnanti. Non se ne lasciano sfuggire neppure una: non v’è ragazzo che non avverta quale beffa possa, ad esempio, racchiudersi nell’invito a non assentarsi, che fosse a lui rivolto da parte di un docente spregiudicatamente assenteista. All’educatore non occorre mostrarsi come una persona perfetta, ma per quello che si è realmente. I ragazzi sanno apprezzare sempre l’autenticità e cogliere qualsiasi infingimento.

        Negli anni successivi alla rivolta studentesca del ’68, nella scuola, in modo particolare nella secondaria, si era diffuso il vezzo tra i docenti d’impostare la relazione educativa in termini psico-terapeutici o di assecondare, spesso ipocritamente, gli orientamenti ideologici e le mode giovanili, nel tentativo di assicurarsi un facile consenso da parte giovanile. Tale situazione risulta efficacemente descritta nel passo seguente del nostro libro: “Da una parte, si vede il docente assumere il ruolo del falso ed improvvisato curatore di anime, che a lui aprono pene e conflitti della più varia specie come ad un confessore privilegiato o ad uno psicoanalista; dall’altra, si assiste alla passerella degli eterni sconfitti che fan mostra di sentimenti affettati e delle lambiccate analisi dell’ultima moda. E per la fregola d’inseguire miti e tendenze giovanili per restare al passo con essi nelle frequenti sedute politiche o psicoanalitiche, il docente è finito col farsi una cultura del femminismo, della Scuola di Francoforte, dei classici del marxismo e della filosofia indiana”[8].

    Un altro obbligo implicato nella relazione educativa è quello dell’imparzialità, che nel linguaggio psicopedagogico non significa essere “neutrale”, ma “equo”, “giusto”. Ciò non vuol dire ovviamente che l’educatore debba con tutti gli educandi comportarsi allo stesso modo. Deve piuttosto assicurare ad ognuno ciò di cui egli abbia veramente bisogno. Don Milani ha affermato, a tal proposito, che “la più grande ingiustizia è fare parti uguali fra disuguali”.

    Quando un insegnante esprime le valutazioni intorno alle prove dei ragazzi, va a stabilire differenziazioni e gerarchie tra loro. Gli studenti, anche i più “modesti”, sanno essere giudici severi della capacità di valutazione dei propri insegnanti. Se li giudicano ingiusti, parziali o pregiudizievoli, non può certo la bella lezione riuscire a far loro riconquistare la stima e la fiducia perdute.

    L’imparzialità va usata non solo nelle votazioni che si assegnano alle prove dei ragazzi, ma in ogni momento della vita relazionale che si svolge a scuola.  Equi e giusti bisogna, cioè, esserlo con gli studenti, non solo nelle valutazioni, ma anche nel coinvolgimento nelle attività scolastiche e nell’attribuzione delle responsabilità.  Può accadere, ad esempio, che un ragazzo si senta emarginato dal proprio insegnante, perchè questi, forse senza neppure rendersene conto, non gli rivolge che molto raramente lo sguardo.  Pare che ciò capiti quasi istintivamente anche ai docenti più avveduti e con non pochi anni d’insegnamento sulle spalle. Ad essere maggiormente guardati sembra che siano, per lo più, i ragazzi bravi, coloro cioè da cui ci si attendono i risultati migliori e che l’insegnante stesso giudica come i soli davvero capaci di apprezzare tutta la sua bravura.

     Ma non si tratta solo di sguardi, dal momento che ai ragazzi ritenuti bravi sono più frequentemente rivolte domande e così fornite occasioni di esibire comportamenti verbali.  Nel caso di ragazzi valutati negativamente accade, invece, che l’insegnante “rinuncia molto presto a dimostrare di attendersi una risposta: è un modo preciso, quanto poco rilevabile, per così dire, ad occhio nudo, d’influenzare negativamente il loro comportamento comunicativo e il loro stesso rendimento scolastico, la loro opportunità di beneficiarne”[9]

     Un’altra forma di emarginazione, non meno deleteria dal punto di vista psicopedagogico, che si determina nella relazione educativa, può essere considerata l’antipatia, ovvero quell’istintiva avversione che un docente può provare per un alunno o senza una ragione specifica, o per l’eccesso di vivacità del di lui comportamento, o per i di lui disturbi continui, o per altra causa. L’antipatia nella relazione educativa, oltre a suscitare un senso di emarginazione, provoca l’effetto d’inibire la costruzione della fiducia e dell’autostima, indispensabili per il successo scolastico e per il processo di maturazione. “Bisogna cercare di prevenire in tutti i modi possibili il formarsi di ogni fattore di disturbo o di alterazione del rapporto educativo, in quanto molto più difficile risulta correggere un rapporto già compromesso che impostarne correttamente uno nuovo”[10].

       Per liberare il rapporto docente-discente da incomprensioni, diffidenze o vizi di altro genere, ogni sforzo spetta compierlo in tal senso all’educatore, il quale dovrà fare di tutto pur di riconquistare subito il buon rapporto di prima, ritenendo superato l’incidente o l’incomprensione da cui il rapporto sia stato precedentemente turbato. Una buona regola è: niente “musoni” con i ragazzi. Tutto ciò – si sa –  è indubbiamente di difficile attuazione, considerato che anche la persona dell’insegnante, alla pari degli altri, risulta esposta a perversi ed incontrollabili meccanismi psicologici. Ma da parte di un educatore è doveroso aspettarsi un comportamento quanto più consapevole, adeguatamente flessibile e capace di adattarsi a qualunque situazione.  La capacità alla quale deve saper fare più ricorso è l’empatia, che è “la capacità di provare i sentimenti dell’altro attraverso il ricorso all’autoanalisi e la ricerca, nella propria esperienza, di qualcosa di analogo a ciò che l’interlocutore sta in quel momento vivendo, che è possibile comprenderlo”[11]

      Di sicuro un buon educatore va ritenuto colui che lascia i problemi e i crucci personali dietro la porta dell’aula. Gli isterismi, le intemperanze, gli abusi di potere sono quanto di più odioso si possa perpetrare ai danni di un ragazzo. La sua disponibilità ad interagire con i ragazzi non può conoscere alti e bassi; la stessa deve essere continua, né deve essere improntata ad umori mutevoli. I ragazzi, che osservano i propri docenti come fanno questi nei loro confronti, li sanno bene conoscere più di quanto non si creda, riuscendo a prevedere persino le loro più incomprensibili bizzarrie.  Se c’è una capacità trasversale ad ogni discente, qualunque sia il suo livello intellettivo, questa è costituita proprio dal saper andare a fondo della psicologia del proprio insegnante, specie di colui che appare più facilmente prevedibile in ogni sua mossa. Quando una strigliata o una punizione è educativamente necessaria, va data, senza ovviamente eccedere e senza conservare rancori o risentimenti per quanto di scorretto possa essere stato sanzionato nel comportamento del discente. L’accondiscendenza illimitata, il fare finta di niente, ovvero il lasciar passare, oltre che apparire un esempio di civismo della peggiore specie agli occhi della classe, è quanto di più diseducativo si possa immaginare.

       Da questo punto di vista, va detto che grande valore nel rapporto con i discenti va dato, non solo al profitto, ma anche al comportamento, nel senso che va adeguatamente apprezzato qualunque aspetto positivo di quest’ultimo, se non si vuole trasformare sempre più quella di oggi in una scuola del solo sapere, ovvero della nozione fine a se stessa, e della cultura condannata a restare perennemente “disincarnata”.  Più di ogni altra cosa, nel campo dell’educazione del comportamento, vale la testimonianza fornita quotidianamente dall’educatore che, agli occhi dell’educando, deve costituire l’esempio vivente di quelle stesse modalità di azione e d’interazione che egli intende perseguire come obiettivi educativi del suo lavoro.  Occorre, in altre parole, che ogni azione del docente sia improntata a quel senso di civismo, di lealtà, di correttezza, ecc., che lo stesso vuole educare nel discente.

        Ciò fa comprendere quanto sia importante la formazione iniziale del futuro docente e quanto delicata e difficile sia la sua funzione. La sua figura non si può certo confondere né con quella di un puro e semplice funzionario statale, né tantomeno con quella di un qualsiasi mestierante. Pretendere di correggere, con Corsi di Aggiornamento successivi all’avvenuto reclutamento in servizio, il suo comportamento e la sua interiorità negli aspetti che attengono appunto alla sfera interazionale con i discenti è cosa alquanto illusoria.

      L’interazione educativa non può non fondarsi sul rispetto reciproco. L’alunno deve ovviamente accostarsi con atteggiamento di deferenza al suo docente, ma costui, con le doti intellettuali, le qualità morali e l’autorevolezza deve essere capace di guadagnarsi la fiducia e la stima del discente. Non si deve incorrere in alcun “abuso di potere”, ma usare rispetto per la dignità umana a cui ha diritto ogni ragazzo. Rispetto, innanzitutto, per i suoi schemi di conoscenza, i suoi tempi di comprensione, le sue opinioni, ma anche per la sua intimità e il suo senso del pudore: e, dunque, bando alle allusioni e a qualunque forma di linguaggio sboccato e volgare. Capita non raramente che, da parte dei Giudici Tutelari dei Tribunali, sia denunciata pubblicamente la presenza addirittura di casi di molestie sessuali nelle scuole.

          Occorre rispettare sempre l’intimità del ragazzo, non essere con lui volgare né col comportamento, né col linguaggio e né con i ragionamenti. Per meritare il rispetto del ragazzo, l’insegnante deve elargirgli lo stesso tipo di rispetto. Spesso il ragazzo è costretto a “stare al cattivo gioco”, perché posto nel ruolo più debole di studente, ma intimamente prova imbarazzo e profondo turbamento per quello che talvolta è costretto ad ascoltare o per ciò che accade suo malgrado intorno a lui.

         Il rispetto non va confuso, tuttavia, con la rinuncia, da parte dell’educatore e dell’educando, a svolgere ciascuno il proprio ruolo. L’insegnante si comporti pure con l’allievo amichevolmente, ma non “faccia” l’amico; deve prima di tutto saper fare l’insegnante. Allo stesso modo, l’allievo deve adottare quei modelli di comportamento che attengono al suo ruolo di allievo.  Nella qualcosa non è da vedersi alcun incentivo ad un irrigidimento della relazione docente-discente, ma semplicemente una volontà di portare chiarezza ed ordine in una realtà, sulla quale da tempo si sono addensati tanti equivoci e tante ipocrite mistificazioni.

        Una forma deleteria d’irrigidimento del rapporto è semmai manifestata da quel docente che, non sapendo farsi obbedire con la stima, si fa obbedire con il terrore.  Non c’è rapporto peggiore di quello che è contrassegnato unicamente dalla severità e dalla punizione e che è basato tutto su divieti, proibizioni, minacce, ammonimenti e assenza quasi assoluta di dialogo. Discutibilissimo va definito l’assunto secondo il quale “la punizione di un determinato comportamento comporta l’apprendimento del comportamento alternativo desiderato.  Anche qualora la punizione dimostrasse una certa efficacia, resterebbe il fatto che essa non garantisce, con l’eliminazione dei comportamenti inadeguati, la loro sostituzione con comportamenti adeguati. Sul piano della comunicazione ne deriva un’indicazione da perseguire sistematicamente: osservare con attenzione analitica l’interlocutore, in modo da individuarvi i comportamenti da rafforzare socialmente, piuttosto che non quelli da punire”.[12]

      Dunque, autorevolezza, tatto, non autoritarismo o irrazionale severità: “gli insegnanti devono destreggiarsi fra la troppa fermezza, che può impaurire (…), e la troppa confidenza”[13]. Del resto, da un modello d’insegnamento e di relazione, informato all’autoritarismo, possono derivare rischi piuttosto gravi: “il pericolo è che l’insegnante divenga strumento involontario di devianza (riferito al comportamento in classe) e di emarginazione riferito al sentimento di abbandono-espulsione)”[14].

      Da quanto fin qui affermato, si deduce chiaramente l’opportunità che nella scuola sia attribuito grande valore al comportamento del ragazzo, quanto al suo profitto. Il che, nel concreto, deve tradursi nell’apprezzare che il suo comportamento sia improntato a civismo, correttezza, senso di amicizia, di lealtà e di solidarietà.

[1] L. Corradini, I giovani e la loro cultura, documento dal sito Internet della P.I., p. 2

[2] M.A.Galanti, Affetti ed empatia…”, op. cit., p. 90

[3] Ivi,  p. 86

[4] M.A.Galanti, Affetti ed empatia…”, op. cit., p. 86

[5] Ivi, pp. 86-87

[6] SSIS, Unità  didattica 5 Anno II, p. 2

[7] M.A.Galanti, Affetti ed empatia…”, op. cit., p. 91

[8] F. Federico, La scuola nuda, A.Armando, Roma 1989, p. 69

[9] L.Lumbelli, Psicologia dell’educazione. I. La comunicazione, Bologna, Il Mulino,1982, p. 128

[10] Ivi

[11] M.A.Galanti, Affetti ed empatia…, op. cit. , p. 92

[12] L.Lumbelli,  op. cit., p.139

[13] S.Brint, Scuola e società, Bologna, Il Mulino 1999, p. 311

[14] Premessa – Stili educativi – Unità didattica 4 – Psicologia

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