Il cielo e il mare di Lorenzo Carnuccio

I

        Il pesce aveva smesso di boccheggiare. Il suo sangue tingeva di rosso la sabbia su cui era stato appena gettato, al resto ci pensava il tramonto. I pescatori ammainarono le vele, ripiegarono ordinatamente le reti e raccolsero rami secchi per accendere il fuoco. Le loro spalle avevano sopportato fino a quel momento la lunga giornata di pesca, ma erano troppo stanche per trasportare tutta l’attrezzatura fino a casa. In tempi di magra avrebbero resistito a quella camminata, ma ora, durante la stagione degli amori dei pesci spada, i pescatori potevano star tranquilli che mogli e figli sarebbero andati a letto senza i morsi della fame. Da maggio a luglio i pescatori stringevano meno la cinghia. O perlomeno, così era per gli Spada. Totò, Peppe e Vincenzo “Spada”: ultimi eredi di una famiglia che da generazioni cacciava i pesci a cui dovevano il loro soprannome.

      La spiaggia era deserta quando gli uomini cominciarono a sedersi attorno al fuoco scoppiettante che interrompeva il silenzio della notte. Il pesce arrostiva lentamente sulla griglia. Vincenzo, mancato scrittore per mancata istruzione, narrava storie e leggende sulla vita in barca, storie e leggende sul mare e sul cielo. La più famosa e tramandata narrava di come questi fossero fratelli, separati alla nascita dal Padre Eterno, e di come ora, disubbidendo alle leggi divine, provassero a ricongiungersi e tornare ad essere una cosa sola. Così il mare andava in burrasca per abbracciare il cielo con le sue onde, e il cielo ricambiava, di notte, accarezzando dolcemente il mare con la luce della luna. Tutti gli sforzi erano vani, e come spesso succede anche tra gli uomini, toccarsi è possibile solo quando meno lo si aspetti. E così, nelle fredde e cupe giornate d’inverno, un solo colore tingeva il paesaggio. Un infreddolito, opaco e calmo specchio d’acqua inghiottiva l’orizzonte, e diventava una cosa sola con la sconfinata dimora delle nuvole.

    Un’altra leggenda raccontava di come cielo e mare fossero due amanti, e di come gli uccelli e i pesci fossero i loro figli, eternamente fratelli che non si amano, un po’ come succede a volte tra gli uomini. Tra una storia e l’altra il pesce giunse a cottura e il piccolo Gaetano, da tutti conosciuto semplicemente come “Gae”, fu felice di poter interrompere la predica di quelle noiose storie, che aveva ascoltato almeno un migliaio di volte come una pedante e lunga preghiera. Gae Spada era il figlio di Totò, il più taciturno della famiglia. In generale nessuno di loro era molto loquace, ma Totò non apriva quasi mai bocca, che rimaneva serrata, con i bordi costantemente rivolti all’ingiù, quasi provassero ad allontanarsi dagli occhi verde smeraldo che brillavano nel buio, signoreggiati da sopracciglia nere e folte che gli conferivano uno sguardo tagliente e intenso. Gae somigliava molto al padre. La pelle scura, il fisico asciutto e i capelli nero corvino, lo stesso volto spigoloso su cui ancora non era cresciuto un pelo di barba, di cui non aveva bisogno perché lo sguardo fisso, denso e penetrante del padre era incastonato sul suo viso come una pietra preziosa, ed era un segno di riconoscimento migliore di qualunque cognome o soprannome.

        Un giorno Gae avrebbe raccolto l’eredità del padre: il lungo arpione logoro ma appuntito, lo scettro simbolo del potere con cui gli uomini si imponevano sui figli del mare. Un giorno Gae avrebbe ucciso i pesci spada proprio come il padre, che osservava a lungo durante le interminabili giornate passate al largo. Il pesce muoveva sinuoso le sue pinne bluastre, manteneva fissa la rotta, cambiava direzione spesso e senza preavviso, si destreggiava tra i flutti con grazia come un ballerino e ricordava la sua tenacia con la lunga arma affilata. La barca del padre faceva fatica a seguirlo, e i pescatori con lui cominciavano ad accusare la fatica sulle loro braccia, stremate dai remi. Il pesce continuava a frangere le onde e non sembrava dar segni di cedimento. Totò rimaneva sempre in punta alla barca, in piedi, col suo lungo arpione con la punta verso il basso, e nonostante il sobbalzare della barca, il suo sguardo e la sua mano rimanevano fermi. Ad un tratto il pesce tentò di seminare ancora la cricca dei pescatori con un repentino cambio di direzione, ma il balzo agile e scattante lo portò proprio vicino la prua. Totò sollevò l’arpione con entrambe le mani, rimase fermo un istante o due e lo conficcò nella testa dello spada con tutta la tensione che i suoi muscoli avevano trattenuto fino a quel momento. Solo anni dopo Gae avrebbe capito che il padre non scaricava sul pesce un’arma o una violenza necessaria, ma ben 40 anni di fame, sacrifici, salsedine, pelle arsa al sole e rabbia, rabbia per un destino segnato, sempre dritto e immutabile, come il naso di un pesce spada.

II

       Eravamo sulla spiaggia. Mia mamma mi aveva portato a fare una passeggiata in una domenica assolata e io per un attimo mi avvicinai alla barca trasportata a riva da alcuni uomini a piedi scalzi. Ero affascinato dai colori delle reti e da quelli della prua, resi più intensi dal riverbero dell’acqua. I pescatori raccoglievano e ripiegavano le reti con le loro braccia forti e villose, sollevavano le cassette di orate con mani graffiate e disseminate di calli. Non parlavano quasi mai – l’essere taciturni non era una caratteristica unica di Gae – e quando lo facevano si esprimevano con parole che a me sembravano versi di animali feroci, o forse solo stanchi. Mi liberai dagli sguardi apprensivi di mia madre e corsi a vedere quel mondo così denso di fascino che quella mattina si era affacciato alla finestra della mia curiosità. Nessuno dei pescatori fece caso a me, tranne Gae, che quel giorno era stato iniziato alla vita di mare. Mi guardò con diffidenza, a causa dei miei vestiti e del mio modo di parlare, ma nonostante ciò notò la mia presenza, quella di un ragazzo che aveva più o meno la sua età, ma che non avrebbe mai conosciuto le vesciche sui polpastrelli, né il mal di schiena e neppure, soprattutto, la fame. Dopo qualche attimo in cui mi scrutò, inquisitore e diffidente, si girò bruscamente, richiamato dal padre per portare su le lenze e gli ami.

     Da quel giorno ritornai sempre in riva al mare quando ne avevo la possibilità, a volte anche di nascosto. Guardavo Gae e i suoi parenti portare le barche a riva, mentre la schiuma bagnava i loro vestiti e li rinfrescava dalla calura estiva. Le loro rughe diventavano più profonde ad ogni sforzo intermittente che serviva per l’alaggio. Le parole erano di troppo; il fiato va conservato per quando è necessario issare le vele. Questo, forse, era il motivo per cui le loro frasi si riducevano a vaghi grugniti o versi strascicati più delle loro reti. Diffidenti, solitari, un po’ rudi e abitudinari. Da persone così sembrava difficile potersi aspettare le poetiche leggende che circolavano sul loro mondo, un mondo che a noi bagnava i piedi ma non il cuore, e che li vessava tanto quanto li ricompensava. Le leggende erano il risultato di quella conoscenza che non conosce parole e formule, libri o lezioni, ma che deriva solo dalla percezione dei sensi e dall’esperienza.

         Passarono gli anni, io e Gae non eravamo più bambini. Ci avviavamo ognuno per la propria strada, già da tempo segnata per entrambi. Io continuavo a rimanere affascinato dal mare e dai suoi abitanti, e anche da quei sicari che a volte lo invadevano da clandestini. Ogni tanto compravo il pesce da loro, solo per vedere Gae e i suoi all’opera, per potermi avvicinare al fascino che si celava sotto una vela abbassata, tra un buco e l’altro in una rete, in punta a un arpione. Era Gae a trattare il prezzo, e suppongo che all’inizio non gli stessi molto simpatico. Col tempo imparai a farmi voler bene, probabilmente acquistando il loro affetto attraverso il pesce.

         Un giorno Gae mi disse che, se mi piaceva l’idea, il padre era disposto a farmi andare a pesca con loro, dietro compenso ovviamente. Senza pensarci diedi fondo ai miei risparmi. Mi alzai alle cinque la mattina dopo, vestendo i miei abiti più vecchi – che nonostante ciò valevano ancora molto più di quelli di tutta la ciurma – e mi feci trovare puntuale al luogo dell’incontro, sulla spiaggia. Gae e il padre arrivarono l’uno dietro l’altro, in quella che sembrava la fotografia del tempo che passa. Stavolta non avevano con sé solo le reti, ma anche un lungo arpione. Ero stato fortunato: la stagione degli amori dei pesci spada era da poco iniziata, e la presenza di quella lancia appuntita lasciava presagire uno spettacolo accessibile a pochi, uno spettacolo che non avrei dimenticato.

      Sarebbe stato Gae a pescare, una delle sue prime prove dopo tanto addestramento. Gli zii battevano forte la mano sulla sua spalla e lo incoraggiavano, ma lui non voltava né lo sguardo per ringraziarli e tantomeno esprimeva alcun cenno di apprezzamento per la fiducia. Non che i pescatori se l’aspettassero; quelli erano convenevoli, e i convenevoli sono inutili e ti fanno perdere fiato. Cercavo di scrutare qualche emozione in lui mentre caricava a bordo le reti, ma vidi solo il vecchio sguardo denso e un po’ corrucciato, come per un fastidio interiore, come se ci fosse qualcosa che dentro di lui remava contro. Saltammo in una barca stretta e affusolata, prima che alcuni uomini, tra cui il padre di Gae, la spingessero sulla battigia fino in mare. Totò saltò su e fece segno al figlio di andare a prua, proprio vicino a dove mi trovavo io, per non intralciare gli altri pescatori che remavano alle nostre spalle. Scambiai con lui uno sguardo di incoraggiamento, ma non fece caso a me, era già concentrato e pronto ad agire.

      Il sole iniziava a farsi alto nel cielo e delineava il suo profilo: un piede nudo in avanti su un piccolo gradino, mentre quello dietro equilibrava il peso del corpo magro, con muscoli estremamente definiti, tesi e pronti all’azione, mentre le braccia e le spalle sostenevano in alto un lungo arpione dalla punta corrosa dal tempo e dalla salsedine ma ancora accuratamente affilata. I pescatori iniziarono a remare, prendemmo il largo. Dopo un’ora cominciavo a essere tediato dal caldo e dall’attesa: non si era vista nemmeno l’ombra di un pesce e la fronte mi sudava copiosamente sotto il cappello di paglia che mi avevano prestato per proteggermi dal sole.

      Cominciavo a rimpiangere i miei soldi. Ad un tratto uno dei pescatori a prua urlò una parola che dentro le mie orecchie condensò in un monosillabo lungo e strascicato, ma che sortì l’effetto di far cominciare tutti gli altri a remare più energicamente. Stava cominciando l’inseguimento. Gae non si voltò neppure, ma si limitò a sollevare l’arpione dalla spalla poco prima che il pesce fosse visibile anche a me. Non avevo mai visto un pesce spada vivo, e fui quasi spaventato da quell’enorme massa blu che fendeva l’acqua rapidamente, muovendo la testa a destra e sinistra, somigliando a un vero e proprio spadaccino che brandisce la sua arma. Percepito il pericolo, il pesce cominciò a fuggire. Lo seguivamo a stento, i pescatori grugnivano per la fatica, sulle loro braccia le vene in rilievo per lo sforzo. Il pesce era troppo veloce. Cambiava direzione con facilità, si esibiva in capriole in profondità, si prendeva gioco di noi, che non fummo mai in grado di metterlo veramente in pericolo. Ancora una volta rapito dallo sconforto, guardai Gae in cerca di uno sguardo che confermasse la mia desolazione, ma così non fu. Non aveva smesso un secondo di sorreggere l’arpione, in quella che sembrava la posa di un minatore che brandisce il piccone in aria, pronto a fendere la roccia che lo divide dal suo diamante. Continuammo alla stessa andatura anche quando il pesce non si vedeva più, con Gae sempre nella stessa posizione, gli uomini sempre che remavano, il padre che sorvegliava il figlio con sguardo severo, da lontano.

      Non capivo tutto ciò fino a quando non rividi spuntare il pesce dall’acqua per un attimo fulmineo, in cui increspò la superficie piatta del mare calmo. Adesso in lontananza non vedevo più l’orizzonte ma un golfo creato da una piccola insenatura sulla costa, dove ci stavamo dirigendo. Capì che avevamo girato in tondo, ma non a vuoto. Lì il fondale si faceva sempre più alto, e il golfo lasciava poche via di uscita al pesce, ancora inconsapevole della trappola. I rematori erano ora allo stremo delle forze, ma sapevano bene che era giunto il momento cruciale. Il padre di Gae e i più anziani cominciarono ad incoraggiare gli altri con un verso gutturale e cadenzato, che andava a ritmo con i colpi di remo. Il pesce ora eseguiva cambi repentini e scatti ancora più veloci, ma meno precisi, figli di un nervosismo che aumentava visibilmente.

       Cominciava a capire di essersi cacciato in un guaio. Gae alzò di poco l’arpione. Il pesce provava a scendere in profondità, ma gli scogli sommersi e il fondale alto glielo impedivano. Gae accusava la fatica di sostenere l’arpione, ma era ancora concentrato e in tensione e non lo erano solo i suoi muscoli, ma anche la sua anima. Come un tamburo era pronta a essere percossa dagli eventi, che l’avrebbero fatta vibrare di gioia o di dolore, e che in ogni caso avrebbero rotto l’apparente quiete protratta fino ad allora. Ci spingemmo ancora di più sulla costa fino a quando il pesce, a causa degli spazi stretti e della disperazione, si avvicinò pericolosamente alla barca.

      Gae pensò alla prima volta che era salito su quella barca, anni e anni prima. Totò aveva ucciso un pesce simile a quello che ora passava sotto il suo sguardo, sotto il suo arpione, sotto il suo giudizio. Forse era il padre, o forse era suo fratello. Forse. Forse tutti i pesci sono fratelli, come dicevano i suoi zii. Gae affondò l’arpione nella testa dello spada, che iniziò a divincolarsi spasmodicamente e a battere la coda. Imponenti schizzi si riversarono sulla barca come una grande onda creando scompiglio, ma Gae non staccò per un attimo gli occhi e l’arpione dalla testa del pesce, col viso deturpato dallo sforzo. I muscoli tesi erano espressione di una forza che poteva provenire solo dall’istinto di sopravvivenza, dalla fame, dal mors tua vita mea, e dalla consapevolezza che per conservare una goccia di vita questa era l’unica strada che si presentava a tutti gli uomini su quella barca, all’infuori di me. C’era tanta dignità e altrettanta sofferenza in quel gesto. Il pesce ora non si muoveva più con la stessa foga, ma riusciva solo a strattonare ritmicamente l’arpione, che affondava in profondità nella sua carne sotto i veementi colpi di Gae, che non gli lasciavano tregua, mentre l’acqua vicino la chiglia cominciò a colorarsi di rosso scuro. La corrente la trasportò vicino lo scafo, tanto da potermi sporgere per verificarne la consistenza. Ben presto gli strattoni si tramutarono in lievi sussulti che non facevano più tremare la barca, quasi come se il pesce stesse singhiozzando, e Gae con lui.

     Tornammo a riva con l’enorme preda. Gae non disse nulla per tutto il viaggio di ritorno; il suo viso inespressivo non tradiva alcuna emozione. A terra aiutai goffamente i pescatori a trasportare l’enorme mole dell’animale. Questi si congratulavano con il loro pupillo, che non rispondeva con il minimo cenno in una scena del tutto simile a quella della mattina, se non fosse stato per il caldo atroce e i vestiti zuppi di sudore e salsedine. In quel momento notai per la prima volta una scintilla di tristezza nel suo sguardo, che subito riprese la sua espressione austera quando incrociò il mio, quasi per la vergogna di essersi fatto trovare a guardia abbassata. Quando tutti furono via gli diedi la mano e lo ringraziai. “Mi dispiace”, gli dissi. La sue espressione si accigliò, senza destare più di troppo scalpore. Continuò a guardarmi per qualche momento mentre andava via, prima di voltarsi. Quel giorno iniziò la nostra amicizia.

III

      Eravamo molto diversi. Lo era il nostro aspetto, il nostro carattere, la nostra vita, ma soprattutto lo erano i nostri desideri. Spesso, dopo il tramonto, andavo a trovarlo sulla spiaggia. Lì lo trovavo intento a scaricare il pesce o conservare le esche per il giorno seguente. Ci sedevamo sulla palafitta di una vecchia capanna di legno per fumare, o per stare in silenzio. Nessuno utilizzava più quel vecchio deposito e noi ne approfittammo a nostro uso e consumo. Gae ci teneva gli ami, le lenze e gli arpioni, e io lasciavo qualche libro, per quando venivo a studiare lontano dalle grigie mura di casa. Ogni tanto parlavo della mia giornata, e quando chiedevo della sua lui la racchiudeva in un perentorio “ho pescato”. La sua faccia assumeva un’espressione rassegnata e in genere era questo il momento in cui accendeva un’altra sigaretta. Un giorno gli raccontai di come mi affascinasse il suo mondo, di come provassi una fatale attrazione per l’essenzialità dei suoi gesti, per quei volti rugosi asciugati dal sole, per tutte quelle lampare che bucavano l’oscurità dell’orizzonte nelle notti d’estate, e per come ogni gesto di un marinaio fosse così sincero e nudo, privo di ogni artificio. Per me guardare un pescatore armeggiare sulla barca al tramonto significava scavare dentro la sua anima, e trovarci nient’altro che ciò che vedevo. Gae si voltò un attimo, guardandomi qualche istante con la solita espressione a metà fra il diffidente e l’infastidito, prima di dirmi “Ti sbagli”.

    Un giorno arrivò al paese lo zio di Gae, emigrato in Messico tempo prima. Grassottello e bontempone, era la pecora nera degli Spada. Si diceva che fosse del tutto incapace come pescatore sin da quando era ragazzo, e ciò lo aveva spinto a partire per l’America dove aveva aperto un ristorante che si rivelò la sua fortuna. Portò in dono un cucciolo di pellicano, un uccello che nessuno al paese aveva mai visto e che destava in tutti un leggero ribrezzo e un po’ di ilarità, a causa della sacca flaccida sotto il becco e della camminata goffa. L’uccello crebbe in fretta e Gae cominciò ad affezionarsi a lui. Insieme, gli davamo da mangiare tutti i giorni e lo guardavamo ritornare al suo solito scoglio durante la sera, al tramonto, mentre la sua mole signoreggiava sui gabbiani impauriti. Gae mostrava molto zelo nella cura del pellicano, soprattutto dopo qualche anno, quando cominciò a perdere le penne, ad avere difficoltà a pescare, a decollare, a nutrirsi. Lo andava tutti i giorni a trovare nella grotta dove l’uccello si rifugiava, portandogli sempre il pesce invenduto, e a volte lo vidi di sfuggita mentre gli accordava qualche carezza.

    Un giorno trovammo il pellicano morto sugli scogli, in un mattatoio di sangue e penne sparse. A lungo cercammo un colpevole tra gli animali e tra gli uomini, senza riuscirci. Non sembrava fosse stato ferito da un coltello o da un artiglio, né sembrava che gli fosse stato tirato il collo. L’impressione era che si fosse schiantato. Fu lo zio di Gae a chiarirci le idee, in uno dei suoi tanti ritorni al paese. Ci raccontò di come i pellicani si rendano conto, una volta invecchiati, di non aver più la forza di pescare, di nutrirsi, di andare avanti. Così con le loro ultime forze volano alti nel cielo, molto al di sopra dei banali gabbiani, e da lì si lanciano con forza verso gli scogli, nella loro ultima caduta in picchiata. Mentre io piangevo, Gae continuò a guardare l’orizzonte.

IV

      Alcuni anni dopo Gae partì per il Messico. Raccontò a tutti quelli che glielo chiedevano di voler seguire le orme dello zio, andando a cercare un po’ di fortuna oltreoceano. Io però sapevo che non si trattava di soldi. Gae voleva solo andar via dal sangue che tinge il mare di rosso, dalla salsedine che corrode la pelle e dall’umidità che fa scricchiolare le ossa. Gae non voleva cedere ai ricatti di una condizione che segnava come una cicatrice la storia della sua famiglia da decine di anni. Gae non voleva diventare il padre. Gae non voleva fare il pescatore e nessuno glielo avrebbe imposto.

    Quando tornò al paese era ormai un uomo di mezza età. Ricordo ancora il giorno che lo rividi. I capelli brizzolati ondeggiavano sotto il Libeccio, mentre la barba folta nascondeva i tratti spigolosi del viso. Era più robusto e la sua pelle scura era solcata da vene pulsanti che ricordavano i rami spogli dell’autunno, privi ormai delle foglie più belle. In tutto quel tempo, però, aveva mantenuto la parsimonia della parola, e soprattutto lo sguardo intenso e pulsante di inquietudine. L’andatura era un po’ malferma, si sarebbe detto che quasi trascinasse la gamba sinistra, la quale aveva subito la rottura del femore quando in una tempesta monsonica dei frammenti dell’albero maestro gli erano piombati addosso. Buona parte della spalla destra era ricoperta dal tatuaggio di una rondine marinara sbiadita, trofeo che può vantare solo chi ha navigato per almeno 5000 miglia sull’Atlantico. Le mani era solcate da profonde cicatrici che si snodavano tra un callo e l’altro, frutti indesiderati di anni trascorsi a issare le vele con le cime e trascinare le pesanti reti. Le dicerie della gente confermarono ciò che in realtà era evidente: Gae non era riuscito a sfuggire al suo destino.

     Il giorno dopo andai sulla spiaggia al tramonto. Nell’inusuale abbandono le barche arenate sembravano monumenti di un’antica civiltà. Il mare calmo si affiancava al silenzio infranto solo dal gracidare dei gabbiani e dalla risacca delle onde. Andai a fumare una sigaretta sulla palafitta, e colsi l’occasione per togliere la polvere dai vecchi libri di scuola, ormai consumati anche dall’umidità. Ritrovai anche le vecchie attrezzature di Gae e fui colto da un attimo di nostalgia. Decisi di provare a mettere un po’ d’ordine nella capanna. Ripiegai le vecchie reti, snodai le vecchie lenze attorcigliate e tentai di non prendere il tetano in mezzo a un’infinità di ami arrugginiti. Provai a spostare gli arpioni poggiati alla parete di legno, ma uno di questi cadde ai miei piedi. Era quello che Gae aveva usato per uccidere il pesce spada, tanti anni fa, quando anche io ero sulla barca. La punta perforava un foglio di carta strappato, su cui una mano malferma aveva scritto con grafia incerta “Io non sono un pesce spada, sono un pellicano!”.

V

    A casa Spada tutti piangevano. Tutti tranne Totò. Per lui, il figlio era scappato per la seconda volta. Chiesi a Vincenzo cosa fosse successo, chiesi per dar adito a quella minuscola speranza che a volte ci spinge a negare l’evidenza per rimanere a galla, ma affondai. Vincenzo raccontò, tirando su col naso e singhiozzando, di come Gae si fosse gettato dallo strapiombo sopra la grotta, la stessa grotta dove si rifugiava il nostro pellicano. Loro erano arrivati lì un attimo prima del salto nel vuoto, e avevano urlato ed emesso i loro soliti versi incomprensibili, mentre Gae scendeva col capo verso il basso, le braccia aperte come ali. In quel momento l‘orizzonte scomparve, il cielo e il mare si abbracciarono, si tennero stretti, si confusero fino a diventare una cosa sola. Il cielo arrivò sulla spiaggia, ma non ci fu nulla da fare. Il pesce aveva smesso di boccheggiare.

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