Recensione del racconto “Il cielo e il mare” di Lorenzo Carnuccio

               Del bellissimo racconto “Il cielo e il mare” del giovane scrittore esordiente Lorenzo Carnuccio colpiscono soprattutto la sorprendente maturità dello stile e la disinvolta scioltezza con cui le sequenze descrittive vengono fatte avvicendare con quelle narrative. Doti che risultano ancor più apprezzabili, se si tiene conto della giovanissima età dell’autore che ha solo 21 anni e del fatto che esse sono il frutto di un precoce e grande amore da sempre nutrito per la lettura e di un’autentica vocazione letteraria. Il pregio, dunque, al quale va senza dubbio ascritta la piacevolezza di questo racconto è costituito dall’intreccio, dal momento che l’attenzione si sposta ora su un aspetto ora sull’altro, senza che il lettore avverta la sensazione di alcun brusco passaggio o che la discorsività del testo perda in linearità e scorrevolezza.  Il linguaggio si presenta sobrio e appropriato e nessuna parola indulge mai all’enfasi, alla retorica o al lirismo.

              Ad infondere nella narrazione un sapore veristico d’impronta verghiana sono soprattutto la venatura sociale dei suoi principali temi, quale quello della stentata esistenza e della lotta quotidiana contro la miseria, e la dimensione saggistico-documentaria che ben si scorge nel lodevole risultato di consentire al lettore di cogliere ogni più importante aspetto e l’essenza vera e autentica della vita dei pescatori.  La famiglia intorno a cui ruota tutta la vicenda è formata appunto da pescatori. Totò, Peppe e Vincenzo portano il soprannome Spada, perché da più generazioni, nella stagione degli amori dei pescespada, sono dediti alla loro caccia.

               A Totò, che è il più vecchio dei fratelli, è affidato il compito di colpire il pescespada con un lungo e appuntito arpione, mentre ai fratelli tocca remare indefessamente, per affiancarlo e seguirlo nella sua lunga e veloce corsa. A Vincenzo, che è il “mancato scrittore per mancata istruzione” della famiglia, piace, mentre rema durante la caccia, narrare le storie e le antiche leggende “sulla vita in barca, sul mare e sul cielo”, che egli ama e conosce profondamente come un antico aedo.

              Ma “Il cielo e il mare” si può anche definire un racconto di formazione e di carattere, dal momento che narra la storia di una sofferta e difficile amicizia tra due ragazzi, l’uno molto diverso dall’altro per “aspetto, carattere, vita” e, soprattutto, per “desideri”. Uno di essi è colui a cui l’autore affida la funzione narratrice e che si mostra, fin dal primo momento, molto affascinato da tutto ciò che riguarda il mare, la vita e il lavoro dei pescatori; il secondo ragazzo è invece Gaetano, detto Gae, figlio di Totò, ed è il più taciturno di una famiglia composta tutta da persone che parlano poco. Alla misera e faticosa vita di pescatore egli non è stato certo condotto, come il coetaneo, dalla semplice curiosità, ma dall’obbligo di dovere imparare il mestiere, per seguire un giorno le orme paterne.

              Tra le cinque sezioni in cui si articola il racconto, la seconda è quella che segna il passaggio dall’uso della terza persona alla prima, e dunque a prevalere in essa non è la dimensione oggettiva, propria della descrittività, ma quella della soggettività, che porta la narrazione a concentrarsi tutta sulle emozioni dell’attento osservatore, il quale si sente fortemente attratto dalla dura e avventurosa vita degli Spada: “da quel giorno ritornai sempre in riva al mare quando ne avevo la possibilità, a volte anche di nascosto. Guardavo Gae e i suoi parenti portare le barche a riva, mentre la schiuma bagnava i loro vestiti e li rinfrescava dalla calura estiva”. Così facendo, finirà per scoprire che le leggende nate sul mare, sulla pesca e sui pescatori non derivano tanto da “libri o lezioni”, ma “dalla percezione dei sensi e dall’esperienza”.

           La dimensione temporale della narrazione subisce un’improvvisa e inattesa dilatazione, che ha quasi del fiabesco, quando nel terzo paragrafo della seconda sezione con l’espressione: “Passarono gli anni” viene compiuto un lungo salto nel tempo. Or che è diventato più grande, al ragazzo-narratore è offerta, dietro compenso, l’occasione, da lui tanto sospirata, di assistere allo “spettacolo che non avrebbe dimenticato” di Gae che per la prima volta si sarebbe cimentato con la caccia del pescespada, così sottoponendosi ad una sorta di esame o di battesimo con la vita del pescatore sotto gli occhi severi del padre. “Non avevo mai visto un pesce spada vivo, e fui quasi spaventato da quell’enorme massa blu che fendeva l’acqua rapidamente, muovendo la testa a destra e sinistra, somigliando a un vero e proprio spadaccino che brandisce la sua arma. Percepito il pericolo, il pesce cominciò a fuggire. Lo seguivamo a stento, i pescatori grugnivano per la fatica, sulle loro braccia le vene in rilievo per lo sforzo. Il pesce era troppo veloce”. Questa, che di fatto risulta la descrizione più lunga e suggestiva del racconto, si conclude con la lapidaria frase: “Quel giorno iniziò la nostra amicizia”.

          Nella terza sezione si passa così a delineare i tratti essenziali di questa amicizia, appena nata, tra il giovane narratore e Gae, che trascorrono ore in compagnia, anche se perlopiù in silenzio. A parlare e a fare, di tanto in tanto, qualche confidenza all’altro è solo il narratore: “Un giorno gli raccontai di come mi affascinasse il suo mondo, di come provassi una fatale attrazione per l’essenzialità dei suoi gesti, per quei volti rugosi asciugati dal sole, per tutte quelle lampare che bucavano l’oscurità dell’orizzonte nelle notti d’estate, e per come ogni gesto di un marinaio fosse così sincero e nudo, privo di ogni artificio. Per me guardare un pescatore armeggiare sulla barca al tramonto significava scavare dentro la sua anima, e trovarci nient’altro che ciò che vedevo”.

             La stessa sezione si concluderà con l’irrompere nella narrazione di altri due personaggi: uno è lo zio di Gae, “la pecora nera della famiglia Spada”, che tanti anni prima aveva abbandonato il paese per andare a vivere in Messico, “dove aveva aperto un ristorante che si rivelò la sua fortuna”; l’altro è invece un semplice pellicano, “un uccello che nessuno al paese aveva mai visto e che destava in tutti un leggero ribrezzo e un po’ di ilarità, a causa della sacca flaccida sotto il becco e della camminata goffa”, che sarà offerto in dono dallo zio al nipote, il quale ad esso si legherà intensamente.

             L’impatto con questi personaggi avrà un effetto deflagrante sulla povera esistenza del giovane Gae, che in essi coglierà, quasi simbolicamente raffigurata, l’unica alternativa, dentro di sé sempre agognata, alla vita monotona e uguale che era costretto inesorabilmente a condurre. Scelse, infatti, di seguire l’esempio dello zio e di partire anch’egli nel lontano Messico, perché “voleva solo andar via dal sangue che tinge il mare di rosso, dalla salsedine che corrode la pelle e dall’umidità che fa scricchiolare le ossa. (…) non voleva cedere ai ricatti di una condizione che segnava come una cicatrice la storia della sua famiglia da decine di anni. (…) non voleva fare il pescatore e nessuno glielo avrebbe imposto”. Come il giovane ‘Ntoni dei Malavoglia, Gae sente forte il desiderio di abbandonare la sua terra, condannata secolarmente all’immobilismo.

       Ma ritornò, anni dopo, uomo ormai di mezza età, perché così aveva voluto il suo destino e perché, seguendo l’esempio del pellicano, aveva preferito, come disse il padre Totò, “scappare per la seconda volta”, definitivamente però. Gae si gettò, infatti, “dallo strapiombo sopra la grotta”, dove era solito rifugiarsi il pellicano… “scendeva col capo verso il basso, le braccia aperte come ali. In quel momento l‘orizzonte scomparve, il cielo e il mare si abbracciarono, si tennero stretti, si confusero fino a diventare una cosa sola”. E, com’è rimarcato dal titolo stesso del racconto, il cielo e il mare nel punto dell’orizzonte non risultano più visivamente distinguibili l’uno dall’altro.

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