Politica e Partiti personali

        Nel cosiddetto periodo censitario si è avuto a che fare con i partiti conservatori e liberali; a fine Ottocento con i partiti di massa socialisti e confessionali; poi, a partire dagli anni Venti, con i partiti comunisti e fascisti, che potevano contare, oltre che su un ben circoscritto perimetro sociale di riferimento, su una base ideologica solida e dai ben netti e facilmente prevedibili contorni. Lo scenario politico del secondo dopoguerra, fortemente condizionato dal cupo clima della guerra fredda, fu grossomodo caratterizzato dalla contrapposizione del cosiddetto fronte dei due partiti della Sinistra, comunista e socialista, da una parte, e, dall’altra, della Democrazia Cristiana, intorno a cui gravitavano alcuni partiti minori che, sfruttando la piccola frazione di potere governativo, riuscirono a mantenere stabile nel tempo la propria fetta di consenso, senza tuttavia insidiare quella più ampia del forte alleato.  A dominare più facilmente la scena nei partiti minori era un numero ristrettissimo di politici, con i quali s’identificava l’immagine e l’identità stessa di dette forze, mentre all’interno dei numerosi dirigenti della Democrazia Cristiana, del PCI e del PSI si registravano una più vivace dialettica e una competizione, più o meno palese, tra le personalità di maggiore spicco.

      A fungere da spartiacque nella storia dei partiti italiani fu, come è noto, la dirompente vicenda di Tangentopoli, che di fatto segnò, dopo più di cinquant’anni, la fine ingloriosa della grande forza politica dei cattolici e del PSI, suo principale alleato per diverso tempo. Iniziò così la seconda repubblica, ovvero l’era dei cosiddetti partiti personali, il cui capostipite va, senza alcun dubbio, considerato Berlusconi. A differenza dei partiti di lunga storia e la cui fondazione risulta riconducibile, non all’iniziativa di singole personalità, ma a specifiche categorie o gruppi sociali di cui divennero espressione politica, quelli personali hanno quasi sempre come fondatore principale colui col quale finiscono col far coincidere la propria fisionomia e la propria identità. Se, come nel caso piuttosto singolare del cavaliere milanese, il fondatore principale è, oltre che proprietario di televisioni, il suo massimo finanziatore, la leadership del partito personale non può che divenire dello stesso a vita.

       E tra i più significativi tratti distintivi del partito personale uno è rappresentato proprio dall’unicità e dall’inamovibilità del suo Capo, tant’è che, contrariamente a quanto accade nei partiti tradizionali, neppure il forte calo dei consensi riesce a mettere in forse la sua assoluta leadership. In altri termini, all’interno dei partiti personali si registrano rilevanti ed evidenti deficit di democrazia, che curiosamente non sono neppure avvertiti come tali, in quanto vengono percepiti come semplice normalità da parte sia degli iscritti che dei suoi più autorevoli esponenti, dai quali non è di fatto avanzata richiesta di altra regola o comportamento. Pertanto, appare del tutto regolare che la dinamica interna del partito si riduca a qualche colloquio personale col Capo e che non venga mai celebrato alcun Congresso, nemmeno quando, al lume del buon senso, se ne dovrebbe avvertire la necessità per discutere, progettare e definire il programma e la linea politica in vista d’importanti appuntamenti elettorali. Tuttalpiù solo qualche occasionale e improvvisata assemblea. Anche la designazione delle candidature, delle cariche degli organismi di partito, dei capigruppo e dei presidenti di commissioni parlamentari è considerata prerogativa esclusiva dell’unico e incontrastato Capo e del suo entourage.

     Certo sarebbe impensabile nel partito personale l’adozione di uno strumento di selezione dei candidati, come quello delle primarie che, come si ricorderà, era stato più volte rivendicato da vari esponenti di Forza Italia, come Giorgia Meloni, la quale di lì a poco prese la decisione di lasciare il partito per formarne uno personale. E quante volte era stato inutilmente previsto il passaggio del testimone da parte del padre-padrone, ormai pervenuto a veneranda età, a favore di un più giovane e adeguato successore tra i suoi tanti illusi e speranzosi delfini. È comunque convinzione di chi scrive che, quand’anche si fosse fatto ricorso alle primarie, la sua riconferma sarebbe stata più che scontata, dato il servilismo e la grande omertà regnanti intorno allo stesso.

      Un’altra importante caratteristica del partito personale è costituita da quella che viene definita la “drastica riduzione del bagaglio ideologico”. Mentre l’ideologia delle più grosse forze politiche della prima repubblica rifletteva, infatti, una ben definita visione della cultura e della vita sociale e un orizzonte di futuro, da cui si facevano discendere le più importanti decisioni e iniziative, il perimetro ideale degli odierni partiti è rappresentato solo da una ridottissima serie di obiettivi, che ad esempio, nel caso della Lega, sono grossomodo rappresentati dalla questione sicurezza, dalla salvaguardia dei confini nazionali dalle ondate migratorie e dall’uscita dall’euro, che sono i veri cavalli di battaglia su cui poggia maggiormente la sua propaganda. Da un partito personale non ci si può certo aspettare chissà quale puntuale ed organica ideologia o articolato programma politico.

      Circa la nascita dei partiti personali, si può affermare che, nel caso di Berlusconi, la sua discesa in campo non fu certo causata, come piacque allo stesso annunciare platealmente attraverso le sue televisioni agli italiani, dalla difesa della libertà e del principio democratico, ma dal timore, più che fondato, che gli interessi delle proprie aziende potessero andare alla malora, per l’improvviso venir meno dei loro difensori e garanti di sempre, rappresentati soprattutto dal partito di Craxi e secondariamente dalla DC.

   Ma, nella generalità dei casi, i partiti personali sono venuti alla luce da “schegge” di dissidenti di partiti maggiori, dai quali sono fuori usciti appunto per ragioni di dissenso, come quella che ha riguardato la scelta del dare o meno il sostegno ad un governo di unità nazionale, o per una difficoltà bell’e buona di agibilità politica. Anche se, talvolta, un partito personale può semplicemente considerarsi il frutto di un’operazione tatticistica, decisa a tavolino, allo scopo di attirare fette di consensi che diversamente andrebbero perduti, mancando in un determinato cartello elettorale la relativa rappresentanza. Per esempio, dopo l’eclissi di Alleanza Nazionale, seguita alla sua fusione a freddo col Popolo delle Libertà, e dopo il fallimento del distacco di Fini dalla formazione messa in piedi dal Cavaliere, la Meloni, che aveva già opposto il proprio rifiuto ad appoggiare il Governo Letta di unità nazionale, pensò bene di dare espressione politica ai non pochi nostalgici del vecchio MSI, al quale si richiamò espressamente attraverso l’utilizzo della fiamma tricolore nello stemma della sua nuova formazione politica. Negli ultimi mesi è sotto gli occhi di tutti il fatto che il pesce piccolo (Fratelli d’Italia), attraverso una rapida ed esponenziale crescita dei consensi, si stia mangiando il pesce grande (Forza Italia, ridotta ormai al lumicino).

      Un ruolo fondamentale, nella vita dei partiti personali, viene svolto dalla televisione e, sussidiariamente, dai social, senza i quali forse gli stessi non avrebbero potuto né affermarsi, né vedere rapidamente accrescersi in misura consistente i propri consensi. A fungere da megafono propagandistico per eccellenza è stato soprattutto il mezzo televisivo, che è servito agli stessi, per garantire una consacrazione popolare alle proprie leadership: la popolarità di leader come Meloni, Salvini, Renzi si deve essenzialmente al loro massiccio presenzialismo nei talk-show televisivi. Un uguale risultato è stato ottenuto nel M5S, dove, a dispetto del motto “uno vale uno”, a determinare l’investitura a leader di un Di Maio è stata appunto la televisione; il garante Beppe Grillo si è dovuto limitare alla presa d’atto di una leadership di fatto ormai conquistata attraverso la popolarità televisiva.

       Si può concludere affermando che, insieme alla sempre crescente personalizzazione della politica, di cui sono appunto espressione quasi tutti gli odierni partiti, a caratterizzare l’attuale scenario politico sono la volatilità estrema del voto, la quasi ossessiva ricerca del consenso elettorale che viene misurato di continuo attraverso i sondaggi, l’influenza esorbitante dei media nella quotidiana competizione partitica e, infine, il costante indebolimento del ruolo dei cosiddetti iscritti, i quali ormai non hanno più alcuna incidenza sulle dinamiche dei propri partiti e sui gruppi di potere più influenti al loro interno.

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