Lettera a Franco

Caro Franco,

ricorderai che nella seconda lettera riportavo frasi di scrittori, giornalisti, psicologi e psicanalisti come queste: “Questa forzata reclusione riaccende il  dialogo e l’intimità tra le famiglie…; le disgrazie ci rendono migliori; aumenterà la solidarietà, l’amore, il rispetto…” che mi avevano fatto infuriare.

    Ecco, continuano a titillarci con i loro benigni consigli, somministrandoci penetranti riflessioni come di seguito: “… tra i risvolti di questa crisi c’è la riscoperta della lentezza, del tempo lento, molto vicino a quello interiore (sic!)… Sono giorni questi in cui la solitudine imposta dall’emergenza potrebbe indurre giovani e meno giovani a riflettere sul senso della vita, a riscoprire l’anima che in tempi normali era più sola di oggi…”. Cito a memoria e non ricordo gli autori. Avvolti in vestaglia di seta, costoro vagano a tempo e passo lenti nelle loro confortevoli magioni, col mento tra il pollice e l’indice, pensosi dei nostri destini. Naturalmente ringraziamo e nel contempo chiediamo loro: e per milioni e milioni di famiglie che vivono in spazi ristretti, dove viene esercitata la solitudine? E per milioni di nostri poveri e per quelle decine e decine di migliaia di migranti sottoposti a sfruttamento bestiale nelle nostre campagne e vivono in baracche fatiscenti (vedi Rosarno)? Anche per loro questa emergenza è un’occasione per meditare e riscoprire il tempo lento, il tempo interiore, il senso della vita?

    Ieri, caro Franco, è venuto a trovarmi Gianluca e con gli occhi umidi mi ha raccontato di un suo alunno di sedici anni non presente alla lezione a distanza: non aveva dieci euro per la ricarica del telefonino e a casa non avevano di che mangiare. Gianluca l’ha saputo da un altro alunno. Quanti sono gli adolescenti nelle stesse condizioni di quel ragazzo? Ed è tutta colpa del virus? Quella famiglia era già povera. Il virus ha fatto il resto.

    Gli intellettuali, intenti a osservare nei loro giardini le camelie in fiore, non hanno occhi per vedere queste aberranti ingiustizie. Sanno benissimo che il capitalismo è l’istituzionalizzazione dell’avidità umana, che la finanza è il più raffinato e pervasivo strumento di condizionamento delle vite, di manipolazione della realtà, di difesa dell’esistente, del congelamento del fluire dei giorni mesi anni in un eterno presente. Ma loro grufolano attaccati alla greppia del Potere.

    Mai, da quando ho memoria, tanta ingiustizia e diseguaglianza nel nostro Paese! E mai  un’assenza di fiducia nel futuro come in questi anni, in cui la speranza in un mondo un po’ più decente è nulla. E quel che è più grave è che siamo scivolati anche noi nel gorgo di un esasperato individualismo che ci rende estranei gli uni agli altri. In questo assurdo scompensato spietato mondo, solidarietà libertà uguaglianza sono un semplice flatus vocis. E questo accade indistintamente in tutte le aree e le comunità del mondo, per vaste latitudini, in una realtà globalizzata e gestita in nome e per conto di minoranze, che biologicamente hanno fisionomia umana, ma dentro hanno istinti di ingordigia senza limiti e senza ragione.

    Quante generazioni cammineranno ancora per la strada tracciata dal capitalismo, piena di sporcizia e di assassinio legalizzato? E quanto cammino farà ancora la gente semplice con quel male appollaiato sulla spalla senza accorgersene?

    Nessuno dei grandi intellettuali che sfagli dal gregge e si esprima con voce ruvida e ragione abrasiva e produca scompiglio tra i cantori del neoliberismo. Ma forse chiedo troppo, caro Franco, e dimentico i compromessi degli intellettuali corresponsabili delle unghiate con cui la borghesia capitalistica ha sbranato l’identità del nostro Paese, divorandosi anche la coscienza di classe fino all’estinzione delle altre classi sociali. Elevato è stato il grado di  compromissione degli intellettuali, se si eccettuano lodevoli eccezioni, in primis Pasolini, con l’attitudine predatoria che la borghesia, affermandosi, ha sviluppato in ogni aspetto della nostra vita: dall’etica all’ambiente, dall’arte alla libertà stessa.

    Smetto, caro Franco, con i miei furori che, so, sono astratti, e passo ad altro. Ma prima voglio ricordare a me e poi a te che siamo dei privilegiati: abbiamo libri in casa, abbiamo la meditazione a portata di mano, abbiamo la solitudine, se la vogliamo, non imposta dagli eventi, e non avevamo bisogno di quest’emergenza per riflettere sul senso della vita, della morte, dell’amore. Per questo siamo fortunati.

    Tu conosci molto bene i miei moti interiori, caro Franco, e in essi ti compenetri e ti compenetri nello sgomento dell’umano assetto della figura di Rosa raccolta nella sua ombra, in un fondersi di vita e non-vita, di gridi e silenzi. Darmi pensiero di lei mi appaga. Questo andamento esistenziale annienta però il valore dello studio meditato e quindi la possibilità di scrittura.

    Tu sai che da anni non vedo un giorno agghindato come si deve e una notte adorna di silenzio; eppure ti devo dire che in questo grave momento sento di risiedere nel privilegio rispetto a milioni di disperati senza nemmeno una scatoletta di tonno nella credenza. E, quando penso a questo, non trattengo l’empito dei miei furori. Ci hanno rubato tutto, hanno fracassato persino l’effigie della pietà sostituendola con quella del denaro. Venissero i giorni dell’ira, mi butterei dentro i vortici della battaglia smisurata. Anche a quest’età.

     E ora, mio carissimo Franco, un po’ di requie per te e per me con una breve immersione nel lavacro dei ricordi: fanno sempre ressa per uscire dalla cripta della memoria. Allora chiudo gli occhi per continuare a vederli salire lentamente come stanchi pellegrini la china del mio odierno eremo assurdo. Arrivano e li faccio accomodare attorno a un tavolo. Ognuno adduce le proprie buone ragioni per bucare la notte dell’oblio. Poi torna alto il silenzio e dalla luce meridiana di decenni e decenni fa giunge l’eco di una ribellione acerba:

      Il 1951 fu un anno di normale miseria a Badolato, e quasi alla fine del suo decorso pensò di lasciarci anche senza tetto: infatti il 17 ottobre, a causa dell’alluvione, un pezzo di paese rovinò nella fiumara. Si gridò al miracolo, o meglio dal pulpito della chiesa si magnificò la Provvidenza ché ci furono sì tanti feriti ma un solo morto, il segretario della sezione del Partito comunista.

      Il Governo aveva fatto costruire le case popolari alla Marina, e nel ’52 a consegnare al sindaco le chiavi dei primi 78 alloggi venne De Gasperi in persona. Per prima cosa era stata edificata la chiesa, sproporzionatamente grande per il numero degli abitanti che eravamo, circa trecento;  e se anche ci entravano tutti non si riempiva.

     Quando nel 1955 arrivò la televisione, si riempiva invece il salone a piano terra attaccato alla chiesa per seguire “Lascia o raddoppia” all’unico televisore del nuovo paese.

     Padre Tarcisio e padre Fulgenzio, entrambi veneti, francescani, esigevano anche da noi, piccoli, le dieci lire all’ingresso. Noi si andava ogni giovedì a vedere “Lascia o raddoppia”, ma non sempre avevamo le dieci lire e padre Tarcisio era irremovibile e non ci faceva entrare.

Un giorno, per dispetto, gli bucammo le gomme della Topolino.

      A due settimane dal misfatto, un pomeriggio d’aprile, mentre giocavamo sul piazzale antistante la chiesa, il padre, sorridente, ci chiamò a raccolta sul sagrato e ci invitò a entrare nel salone ché c’era una trasmissione speciale alla TV. Senza pagare. Una volta dentro, corremmo a sistemarci davanti al televisore spento e attendevamo, quando sentimmo sprangare la porta e nel contempo uno spaventoso ringhio ci fece sobbalzare: non facemmo in tempo a pensare alla postuma vendetta del padre che costui era già su di noi a menare come un indemoniato col suo nerbo di bue. Gridi e pianti risuonarono confusi con la voce stravolta dell’energumeno per non so quanto. Poi, il francescano si accasciò col fiatone sulla sedia e, asciugandosi la fronte con un enorme fazzoletto bianco, ghignava di soddisfazione. Ma non finì lì.

     I nostri fratelli più grandi ebbero il permesso dai nostri genitori, peraltro invisi ai due religiosi perché comunisti, di realizzare una beffa a scoppio ritardato ai danni di quel boia che ogni domenica dal pulpito inveiva contro il Partito Comunista.

     Era un sonnolento pomeriggio di fine luglio: la calura aveva addormentato persino le formiche. Di vivo c’era solo la nostra presenza sotto il grande gelso e quel giorno anche quella dei nostri fratelli maggiori. Tra di essi v’era il più abile nella cattura dei rettili. Dopo un’accesa discussione tra gli estremisti che optavano per la cattura di un serpente velenoso e i moderati per la cattura di uno innocuo, prevalse la posizione buonista.

     A quell’ora stazionavano nella mortizza gli scurzuni, neri e lunghi, innocui: il ragazzo ne catturò uno; quelli che noi pensavamo fossero velenosi si mimetizzavano seminterrati nella litta. Nessuno li molestò. La serpe fu deposta in fondo al paniere avvolta dentro un piccolo sacco di tela chiuso con lo spago. Il paniere fu riempito fin quasi all’orlo di fichidindia e di sopra facevano bella mostra quelle pesche lisce giallorosse e profumate di cui padre Tarcisio andava ghiotto.

     Si offrì volontario il figlio del più comunistone del paese.

Giunti nei pressi della chiesa, noialtri sedemmo in fila sul muretto, in attesa. Il ragazzo scampanellò più volte e finalmente comparve alla finestra il faccione irato del padre che alla vista del paniere si rabbonì e scese. Il nostro gli disse che aspettava giù per il paniere e ci raggiunse di corsa.

     Quello che accadde dopo qualche minuto è facile immaginare. Noi ci allontanammo in fretta, ma avemmo il tempo di sentire gli ululi del padre che imprecava contro Mussolini, reo di non avere impiccato tutti i comunisti.

     L’on. democristiano di Catanzaro fece un’interpellanza al Ministro dell’Interno per sapere quali misure intendeva adottare contro i comunisti che vessavano con le loro malefatte quotidiane i due ecclesiastici che “in condizioni estremamente difficili svolgono con spirito missionario il loro altissimo santo ufficio”.

     Padre Tarcisio e padre Fulgenzio sopra a tutti odiavano la nostra maestra[1] per il suo passato partigiano, e loro sapevano, sì che lo sapevano, che le sue mani grondavano sangue. E, quando invitavano in chiesa a pregare per i peccatori, la escludevano esplicitamente dalle suppliche perché non un cenno di pentimento da parte di quella, che anzi continuava la sua opera malefica instillando nelle nostre già perfide coscienze il veleno dell’uguaglianza, ma il demonio l’aspetta sulla porta dell’inferno.

     In quel periodo era ospite dei due padri un giovane prete. Questi un giorno fece una predica che destò clamore e scandalo: difese niente di meno quella donna, la maestra, che aveva lottato per la libertà e stava “dalla parte dei poveri e amava gli umili come nostro Signore”. Il giorno appresso i due padri lo spedirono là da dove era venuto tra il giubilo dei notabili.

     Passarono gli anni. Un giorno, agli inizi degli anni ’70, mentre facevo un comizio volante in un quartiere di una città del Nord si avvicinò, incuriosito del mio accento marcatamente meridionale, un uomo che mi chiese di dove ero e, saputolo, cominciò a ridere e rideva senza ritegno come un ragazzino. Poi si spiegò: era con padre Tarcisio quel giorno del paniere col rettile dentro.

     Continuava a dare scandalo: faceva l’operaio in fabbrica oltre che il prete.

[1] Un giorno ti parlerò più a lungo di questa donna straordinaria. Ti dico subito che era nata in una città

del Nord, ma di origini era meridionale. Dopo la guerra si era stabilita a Badolato.

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