Terza Lettera ad un amico

   Caro Franco,

l’altro giorno è venuto a trovarmi Cosimo Attinà. Era furioso, dice che l’ho esposto a pubblico ludibrio. Non capisco come sia venuto in possesso dell’indirizzo di casa mia. In un primo momento ho pensato a te; ma tu sai che risiedo a Monterotondo ma non conosci la via dove abito perché non sei potuto mai venire a trovarmi. Poi ho pensato a Mario e ad Alberto che, insieme con le loro consorti, sono venuti a trovarmi più di una volta. E ogni volta, durante i nostri convivi eutrapelici, (copyright Papaleo) ci rammaricavamo della tua assenza, ma eri comunque il convitato di pietra insieme con i tuoi inseparabili amici di sempre, i gemelli Heros e Thanatos, accanto.

   È difficile che il mio indirizzo glielo abbia dato Mario, è passato un po’ di tempo da quando ha conosciuto Cosimo. Ecco, sì, sono certo che glielo ha dato Alberto che l’ha conosciuto due settimane fa; me ne ha parlato entusiasta al telefono, il personaggio di Attinà gli è piaciuto molto.

   Ora dimmi tu, Franco, che cosa devo fare con Alberto. Lo devo privare della mia amicizia? Lo devo perdonare? Certo, lui gli avrà dato il mio indirizzo in buona fede. Ma santiddio! Sapeva che Cosimo Attinà è un omicida, doveva pensarci dieci volte.

    Franco, tu, certo, hai una buona conoscenza di Cosimo Attinà.

Riassumo, comunque, per gli amici della chat: Cosimo Attinà è un innocente condannato all’ergastolo. Per inciso, nel nostro Bel Paese di condannati ingiustamente ce ne sono a bizzeffe e scontano pene anche pesanti nelle nostre prigioni che, a detta di Attinà, sono delle sentine. Se lo dice lui che è stato loro ospite per quasi vent’anni, c’è da credergli.

Poi il mandante dell’omicidio confessò in punta di morte scagionando così l’innocente Attinà.

   Una volta fuori, Cosimo pianificò il delitto, orrendamente originale, del Procuratore e dopo circa un anno lo realizzò. Perché il Procuratore? Questi, all’epoca del processo in Corte d’Assisi d’Appello, era stato il Pubblico Ministero. Placido ma implacabile accusatore, in ore e ore di requisitoria misurata, consueta al suo stile, aveva dimostrato irrefragabilmente la colpevolezza di Cosimo Attinà, che lui sapeva innocente. Il mandante era stato un uomo di molto potere economico e politico, amico stretto del Procuratore.

   Nel piano omicida di Cosimo era prevista la sua amicizia col Procuratore, che gliela accordò senza alcun sospetto. Sempre a beneficio degli amici della chat riporto le modalità del delitto: Si misero (Cosimo e il Procuratore) seduti a torso nudo su due scogli che sporgevano a fior d’acqua dal mare a qualche metro della riva e stavano silenziosi per non fare allontanare i pesci. Le onde battevano sulle pareti degli scogli annerite dalle alghe formando un rischiumo e il mare era un immenso manto blu immobile e all’orizzonte mare e cielo si confondevano in un abbraccio azzurro.

    Quando il sole incominciò a picchiare, l’uomo rovinato dalla Legge disse all’uomo di Legge che andava a prendere a gummula prima che l’acqua si facesse calda. Slegò il sacco di juta con dentro il cesto di vimini sistemato sul portapacchi della bici; sollevò il coperchio del cesto, quel tanto perché vi spuntasse il capino della vipera che egli afferrò immobilizzandola tra il pollice e l’indice e la estrasse; la vipera si attorcigliò al suo braccio che divenne un’arma micidiale. Scendendo la scalinata fischiettava un motivetto per annunciarsi e tranquillizzare il Procuratore che era lui, Cosimo, e così non si voltasse. Si fermò dietro le sue spalle, in una mano un motivo di refrigerio e nell’altra un dispositivo di morte e gli porse da bere. Il Procuratore prese senza voltarsi la gummula e cominciò a bere a garganella con la testa rovesciata all’indietro e gli occhi chiusi a causa del barbaglio del sole: la posizione ideale perché i denti della vipera si conficcassero nella vena giugulare e in quella un urlo terrificante e Cosimo Attinà, sciolto dal braccio il rettile, lo lanciò in mare.

    Sedette a qualche metro dal Procuratore in attesa dei prodromi della sua agonia: il collo gli si gonfiò e divenne bluastro, il respiro si fece faticosissimo, conati di vomito gli sconquassavano il corpo. Implorava aiuto. Ma Cosimo Attinà non lo sentiva perché non c’era, egli non era più l’ergastolano salvato dalla Letteratura. Si alzò e andò a sedersi sui gradini in alto della scalinata nella solitudine più nera con la più nera disperazione. E nera immaginazione: immaginò il Procuratore lì in quel luogo solitario a distanza di qualche ora dalla sua morte; ne avrebbe approfittato qualche gazza puntando dritto ai suoi occhi di madreperla aperti, spaesati nell’azzurro. E dopo qualche giorno il cadavere si sarebbe come per magia vestito di nero grazie ai nugoli di formiche pronte a compiere il loro dovere di indefesse lavoratrici. Non aspettò la fine dell’agonia. Raccolse le sue cose, tornò a casa e, cambiatosi, andò al bar.

   Nei giorni seguenti in paese non si parlò d’altro. Più brutta fine non poteva fare il Procuratore!

   Nessuno però, nemmeno nel segreto delle proprie case, puntò il dito contro Cosimo Attinà.

Tutti lodavano ad alta voce Cosimo, manco fosse lì vicino ad ascoltarli. Se si fosse presentato a sindaco, avrebbe preso i voti di tutti tranne il suo. Cosimo, anzi Cosimino, come lo chiamavano tutti amichevolmente, nella considerazione del paese era il primo in assoluto. E tale simpatia era corroborata dall’effigie del dolore sul suo volto per la perdita dell’amico Procuratore. Lo vedevi fare non solo il solito percorso da casa al bar centrale, come faceva due volte al giorno, ma ora lo vedevi avviarsi per la strada che portava in campagna, assorto e ingobbito, appartarsi sotto il gelso gigante e, seduto su una pietra a sgabello col bloc-notes poggiato sulle gambe, incominciava a scrivere. Ma non ha mai scritto un rigo. In cuor suo si faceva sonore risate. Come del resto tutto il paese con plauso muto alla vendetta di Cosimo.

   Il suo cuore era irrorato della linfa vitale del riso. Il riso fa buon sangue e guarisce l’anemia! Ricordava questa frase di quel figlio di puttana di secondino che angariava un detenuto debole in salute, anemico e balbuziente. E quante volte ha dovuto serrare i pugni per non mettergli la pregugghiata[1] a quell’infame e poi aperte le mani colavano sangue a causa delle unghie conficcate nel palmo. E un giorno gli sorrise la dea della giustizia, la sua, privata. Un giorno lui e il secondino si incrociarono da soli nel corridoio: Cosimo gli si avvicinò sorridente e in un battibaleno gli torse il collo come a una gallina.

   Quella morte rimase avvolta nel mistero più fitto. Complice il direttore del carcere che si era invaghito perdutamente di Cosimo e fece di tutto per far passare quella morte come fortuita, dovuta ad arresto cardiaco. Plaft! E cadde come corpo morto cade, ebbe a dire, facendo sfoggio letterario, al medico del carcere che arrivò dopo due ore. Quel giorno Cosimo usciva dall’ufficio del direttore.

   <<Bastaaa! Non dovevi farlo!>> proruppe l’altro giorno accasciandosi verde di rabbia sul divano del soggiorno di casa mia con la testa tra le mani. <<Mi hai rovinato la reputazione. La pagherai. Te lo giuro, la pagherai cara!>>. Non mi fai paura, sai! Grida quanto vuoi. Faccio di te quello che voglio. Io tiro dritto per la mia strada.

   Poi, caro Franco, ho cercato di rabbonirlo. Così: ho omesso, Cosimo, nel raccontare precedentemente la tua vita di recluso, l’episodio della tua tresca erotica col direttore, perché volevo che nella mente e nel cuore del lettore tu apparissi come un cavaliere senza macchia e senza paura. Omicida, certo, del Procuratore, ma vindice anche di una grave ingiustizia.

   Mio caro Franco, in questi giorni di clausura forzata per tutti, mi si agitano in mente tanti pensieri strambi come che so, un serpente che fa un boccone di un topo. Pensieri strambi, così. Ma forse non sono così peregrini se penso al coronavirus e a me, o ad altri individui della mia specie, pure anziani. In fondo, il sacrificio dei più fragili, di noi anziani con malattie pregresse, è funzionale alla logica della selezione naturale. Come accade nel mondo del mercato, chi non regge la concorrenza è destinato a soccombere. Applicare alla vita umana questa logica rivela la spietatezza del neoliberismo imperante. Altri pensieri mi vengono in mente che non so tradurre in ascolto. Il morbo s’è portata via anche la parola scritta? Parlo di me, della mia parola, naturalmente.

   Cosimo, a te sai che ti dico? Prenditela col virus. Perché, che c’entra il virus? C’entra e come! È lui che ci tiene al guinzaglio dentro casa. E per forza di cose siamo costretti a meditare. Io però non medito alla grande come fanno altri, sul senso della vita, della morte, dell’amore. Costoro sono troppo distanti da me, volano troppo in alto e io non gli tengo dietro fin lassù nella troposfera, dove per il freddo si è soggetti ai crampi cerebrali. E per questo che non ne azzeccano una! Io invece ho meditato su di te, Cosimo. Ora, Cosimo, fammi dire una cosa a Franco: ecco, Franco, di tanto in tanto, rileggendo le mie modeste cose, mi accade, oltre la rimembranza, il riflettere sopra quello ch’io fui, e paragonarmi meco medesimo; e in fine il piacere che si prova in gustare e apprezzare i propri lavori, e contemplare da sé compiacendosene, le bellezze e i pregi di un figliuolo proprio, non con altra soddisfazione, che di aver fatta una cosa bella al mondo; sia essa o non sia conosciuta per tale da altrui. (Pisa. 15. Feb. ult. Venerdì di Carnevale. 1828.).

 Franco, sono blasfemo se cito in soccorso della mia pochezza Leopardi?

   Nei ritagli di tempo libero dalle mansioni riservate a mia moglie, andando a ritroso nella risma di personaggi, miei figliuoli, mi è balzata agli occhi la tua immagine triste, Cosimo, disperata, con quelle tue parole scritte su tovagliolo del bar: <<L’entità è il dolore, il resto è un mucchio di niente>>.

Così ti sei congedato da me all’epoca. E quasi mi hai fatto piangere. Bene, ho pensato, quasi quasi lo riavvivo. Ed eccoti di nuovo personaggio protagonista. E tu per ricompensa che cosa fai? Entri in casa mia come un pazzo furioso  minacciandomi di buttarmi dal balcone, anzi dalla finestra, ché non ho balconi, reo di aver rovinato la tua reputazione. In un primo momento ho avuto paura, sempre un omicida sei, ma poi, resomi conto che sei un fantasma, un fantasma-burattino, pure sbruffone… Mi hai fatto piangere, Cosimo!… Sì, dal ridere. Quindi, statti bonu bonu, se no, sai che faccio? Ti disintegro e annullo anche la tua esistenza precedente. Sarai polvere perché ti farò a pezzettini e ti butterò nel water. Tanto nessuno ti conosce ancora, vivevi solo nel ricordo di pochissimi amici che sono Franco, il mio mentore, Mario, Alberto, Pino, tuoi estimatori. Quindi a cuccia! Anzi no, seguimi, ma come un cagnolino. Seguimi e non ti intromettere mai nella tua vita perché ne sono io il padrone assoluto e farò di te quello che vorrò. Giusto come il burattinaio col burattino.

   Sai, Cosimo, in tutti questi anni di tribolazioni anch’io mi sono divertito. E divertito anche nell’accezione letterale del termine: mi sono cioè rivolto altrove. E sai a cosa? A conoscere il futuro degli uomini. No, non a divinarlo, ma proprio a saperlo. Non di chiunque naturalmente, ma di un centinaio di uomini e donne, e tu tra di loro, che in questi anni mi hanno tenuto compagnia: gente buona e gente cattiva, molto cattiva, e gente buona e cattiva nello stesso tempo, come te.

   So che hai intenzione di andare alla Caserma dei Carabinieri per costituirti. Lodevole atto, Cosimo. Perché lo fai? Conoscendoti, non ci avrei scommesso un euro! Ah, già dimenticavo. Hanno incolpato un innocente dell’omicidio del Procuratore e ora è in galera al posto tuo. Bene, che aspetti, corri, va’! Ma già io lo so: il Maresciallo non ti crederà e ti prenderà per un folle mitomane. Comunque va’.

   Senti, Franco, accompagnami, vediamo insieme che combinerà Cosimo. Non sei curioso? Io so come andrà a finire, tu no. Come d’altronde Cosimo. Che ne sa lui della sua futura vita? È alla mia mercé.

   Cosimo Attinà confessò al Maresciallo l’omicidio del Procuratore e quello lo prese per mentecatto.

Allora stese una memoria in un italiano impeccabile e la depose in Tribunale. Il Giudice Istruttore, che non aveva mai letto una memoria così bella da leggere, attivò la solita procedura affidando l’incarico di accertamenti al Maresciallo. Che rispose picche, cioè che non aveva trovato nessun indizio a carico dell’Attinà e alla fine del verbale lo definiva soggetto pazzo, ma mansueto e non pericoloso né per sé né per gli altri.

   Attinà si presentò di nuovo al Palazzo di Giustizia scongiurando il giudice di emanare un mandato di cattura nei suoi confronti, reo confesso di omicidio. Ma il giudice fu irremovibile: lo prosciolse escludendo la colpevolezza del reo confesso.

   Iniziò per Cosimo la strada in discesa verso la follia, a parere della gente e delle Istituzioni.

In verità si comportava a bella posta da folle. Si era procurato un megafono e andava in giro per il paese, tale e quale il banditore di un tempo, proclamando ai quattro venti il suo omicidio che sciorinava sin nei dettagli. Faceva questo perché voleva allontanarsi dalla convivenza incivile. Se non in carcere, sperava, l’avrebbero almeno chiuso in una clinica psichiatrica dove avrebbe trovato gente sicuramente più savia di quella in giro per le strade, le piazze, o chiusa  in casa. Gli faceva ribrezzo vivere in una società delle tre effe, come lui la definiva: falsa, fasulla, folle. 

   In una clinica psichiatrica fu infine ricoverato. E lì accadde quello che mai avrebbe immaginato.

   Lo seguiva nelle cure una giovane psichiatra. Era minuta, scura di colorito, portava la treccia. Non proprio una bellezza. Ma molto aggraziata nei movimenti. Con un’espressione del viso che rendeva caldo anche un marmo, come gli confessò una volta Cosimo. Stavano bene insieme. E poi stettero bene in seguito fuori dalla clinica. Lei aveva trentaquattro anni, lui cinquantuno.

   Cosimo dopo qualche mese fu dimesso e non disprezzò più la società delle tre effe perché ora c’era Tina. Tina riscattò ai suoi occhi l’intera società, addirittura lui prese a considerare il mondo buono, o quasi. E citava il poeta Zanzotto:

Mondo, sii, e buono;

esisti buonamente,

(…)

su bravo, esisti,

non accartocciarti in te stesso in me stesso.

   Tina si beava della cultura letteraria di Cosimo. Ma libri di Letteratura non ne leggeva perché, quando era libera dal lavoro, voleva stare con lui, e, anche se non possedeva il miele delle sue parole, lo faceva secco con lo sguardo che faceva secca la sua tristezza. Allora gli saltava in braccio e morivano di morte lieta a letto. Vissero, per quanto tempo?, in un bilocale vicino la clinica. Cosimo si inventò un lavoro: il giardiniere. Curava il giardino di tre colleghi di Tina. Ah, se l’avesse fatto prima questo mestiere invece del fornaio! Chissà se la sua vita sarebbe stata un’altra. In carcere si era sottomesso al giogo infernale del destino, reso meno soffocante dalla lettura: i libri non erano per lui degli oggetti silenziosi, parlavano con lui, vivevano dentro di lui, lo possedevano e lo spossessavano insieme, rivivevano nella sua esistenza, colmavano la sua solitudine, schiudevano orizzonti sempre nuovi: lo salvarono dalla disperazione. Le opere letterarie sono come i pozzi artesiani: salgono tanto più alte quanto più la sofferenza ha scavato il cuore; per questo il suo autore preferito era in assoluto Kafka.

  Una volta uscito dal carcere aveva dato un calcio alla Letteratura, quella signora dolce e truce, bella e brutta, vereconda e oscena, eroica e vile, epica e pedestre. Ora, per Cosimo, chi aveva detto che il piacere della Letteratura era infinitamente superiore a ogni altro piacere, compreso l’eros, era un pazzo da legare. In carcere invece asseverava, e come!, questa tesi.

   Al battito insonne del suo cuore, da quando viveva con Tina, era subentrata l’esaltazione del proprio vedersi vivo. Dopo il lungo e tetro balenare della notte era subentrato il caldo fiato del giorno. Aveva lasciato sempre incolto il bisogno della pietà. La Pietas! Ecco, ora l’amore di Tina lo aveva portato passo dopo passo dentro la luce soffusa dell’ascolto, dell’indulgenza, del sorriso. Il braccio di Tina sul suo petto di notte  gli dava tepore e conforto come a un bimbo il braccio della madre. Il sorriso di lei al mattino era la gamella  che si portava al lavoro e da cui attingeva una calma dolce fino alla sera.

Ma il Fato-gatto era sempre in agguato a ghermire lui-topo!

   Non dico come fu riaperto il caso dell’omicidio del Procuratore. Dico solo che, dopo un anno di reclusione nel carcere circondariale di Cosenza, Cosimo fu condannato a trent’anni.

   Tina non perse mai un colloquio con il suo bene, e quando il giorno del colloquio coincideva col suo turno di lavoro, lo cambiava con i colleghi che si dimostrarono di una sensibilità commovente.

A Tina, durante il periodo di custodia cautelare di Cosimo, le forze si erano triplicate.

Dopo la condanna definitiva, s’atterrò.

   La sua vita non aveva più senso senza la vita sua, Cosimo. Cedette alla disperazione.

   Nella notte fredda, nell’aria agra ed erratica del mattino, nel sole tetro di mezzogiorno, alla sera affacciata sulla notte dal nero fermento, irrideva alla morte: Tu non mi basti, il tuo fiato odora di rose. Siediti e guardami. La tavola è imbandita per due. Che fai, piangi la tua vita? Allora tu sei demente. Ah, no, piangi la mia vita? Allora sei due volte demente. Parlami di te, della tua pietà taciuta. È tutto scritto? Svestiti, fammi vedere come sei fatta. Sei un abbaglio di luce per me. Tu non rincorri traguardi. La tua falce luccica al sole, al vento e al tempo che poi tutto porta via e per te non ci sarà più motivo d’esistere. Se ti parlo ogni giorno, non ti spazientire. Parlo con te perché lui è lontano. Le mie parole sono assurde e ti parlo senza costrutto, le mie parole sono più silenziose di una pietra, anche i fiori hanno una tenerezza dura, se è per questo. Non ho più ansia del domani, la collera mi crocifigge al muro. Il mio uomo, la meraviglia della mia vita che gridavo al cielo, è richiuso nel supplizio silenzioso nell’angolo dei vinti. In compenso io urlo con le mani a imbuto alla speranza farabutta, grido a denti stretti la dignità dell’amore. Va’ vai per la tua strada, che io vado per la mia, smarrita. Ma tu cammini sempre rasente ai muri senza un fruscio e senti, quando passi, la gente che ti mugugna alle spalle e si tocca? Vai per i maggesi e per i campi arati, per città e paesi, vai per autostrade e per trazzere, vai per i mari e per i cieli; i vestiti non te li cambi mai, sempre lo stesso, sia che piova sia che divampi il giorno?

   Dimmi quel che fummo insieme, Cosimo, amore mio, quel tuo ridere quieto era il tiepido sole sulla mia treccia sciolta, la nostra sete d’amore come rugiada che ci bagnava gli occhi, io ti accolsi come si accoglie in inverno un cuore vicino, ora è l’inverno del nostro cuore lontano. Ricordi l’estate delle nostre gassose? Tu ti guardavi indietro e io ti dicevo guarda avanti. E tu dicevi non basta l’oblio, non basta una bottiglia per buttare a mare il passato che viene sempre a galla. E accendevi la sigaretta una dopo l’altra senza accorgerti. Io faccio il mio dovere di sconfitto, chi non ha pace non può darla, dicevi. Tacete, vincitori, il riso della vostra gloria! Gli inermi si scostano da voi al vostro passaggio, molti abbassano gli occhi, contenti d’essere vinti. Nel fuoco dell’inganno tutto si raggela. Queste cose dicevi, ma io non capivo. È tardi molto tardi per me innamorarsi, ma come mi è facile innamorarmi di te, dicevi. E mi abbagliavi di tenerezza.

   Era una sera fredda e noi fiorimmo nel tepore di quell’eterno momento. Non sentivamo freddo in quel dolce inverno. Ti toccavo il pomo d’Adamo così sporgente e ridevo, e tu con me, in quella dolcezza buia. La paura di perderti mi ingrandiva gli occhi e gocciolavano e tu mi vedevi nel buio e pure a te ingrandivano gli occhi e allora davi fiato alla tua tromba e la musica ci avvolgeva, fusi. Anche durante il sonno. Ora dormirò il sonno della notte senza fine.

[1] Presa al collo, uccidere per soffocamento.

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