Seconda lettera ad un amico

Caro Franco,

    splendida giornata oggi qui a Monterotondo.

      … questa d’ottobre così gaia//giornata sembra una primavera/ultima…//Rondinelle a schiera empiono di bisbigli la grondaia. Mi suggerisce il poeta. E risale alla memoria il ricordo della primavera dell’anno passato quando, chiusi nelle proprie case e nella propria solitudine ci si misurava con la propria schizofrenia e “quest’atomo opaco del male” sembrava dovesse diventare un’immensa cripta nera.

         Oggi tutto sembra così lontano! A proposito ti allego la seconda lettera delle sette che ti ho inviato l’anno scorso. L’ho riletta stamane. Rileggila anche tu. E dimmi una tua impressione a distanza di un anno e mezzo.

      Sono al parco e osservo: di tra le nuvole aperte il ponente traluce nell’aria che ride; il parco germoglia del lieto rumore dei fanciulli, delle zuffe per gioco dei cagnolini di compagnia; due cinciarelle planano tra la ramura dell’ireos e quasi mi viene di chiedere: <>. Il turbinio dei luì da un tiglio all’altro produce una frenetica gazzarra; al centro del piancito c’è un garbuglio di piccioni che si azzuffano su un biscotto sbriciolato da un bambino fino a quando un altro bambino ondeggiante sui dubbiosi piedini incombe su di loro che si alzano in un momentaneo brillo per poi ritornare a becchettare. Mi attira la vista di un merlo tutto solo: è quello che l’anno passato pianse per giorni dall’olivastro già nel cortile di casa il suo amore ucciso da un corvo? So che il merlo è monogamo per tutta la vita. Una coppia di adolescenti seduti su una panchina, mani nelle mani, si fissano negli occhi mentre un dio li fissa a sua volta e ascolta felice l’armonia dei loro cuori. Come si muoveva indolente e triste allora il vento. Ora è una voce vivente che giunge qui con una piccola fuga celeste e solleva raso terra il foliage (perdonami, Alberto, ma qui l’anglicismo è d’obbligo), che rama l’intero viale del parco. Se io fossi credente e avessi la fede mistica del nostro teologo, cadrei in ginocchio a pregare e ringraziare il Fattore di un questo lembo di terrestre cielo in serena attesa della pienezza della vita eterna. Ma io so che tra anima e corpo, tra cielo e terra non ci sono confini e “… tutto al mondo passa//e di sé orma non lascia”. Ecco, caro Franco, è così rinfrancante parlare con te anche a distanza che non mi sono accorto che ogni cosa si sta ricoprendo del tramonto scarlatto: una grande nuvola copre totalmente il sole, lui la decora di rosa e, acquattato dietro quel fondale, non riappare più mentre gli ultimi scorci d’azzurro sfumano dentro il velario della sera.

     Torno a casa. Per le scale odo il pianto di Rosa, salgo in fretta, apro la porta. Dalla carrozzina mi tende arcuata le mani invocando il mio nome. Mi siedo accanto, le bacio la nuca. Ha qui il suo dolce nido l’amarezza.

                                                                                                       Ciao, tuo Toto. Monterotondo, 13 ott. 21

 

Mio caro Franco,

   oggi il vento soffia leggero, ma piange. In altri momenti avrei detto che soffia di gioia sulla campagna che non vedo e tra la ramura dell’olivastro quaggiù nella corte. Non c’è verde vicino. È la stagione della fioritura, ma  a me è preclusa la vista. E il profumo. Il sole è timido e innocente, quasi orfano della sua forza e siamo in pieno giorno, non al tramonto, e manda bagliori dorati. In altri momenti non avrei fatto caso a questa sua rispondenza ai nostri accidenti. Siamo esiliati tra le pareti domestiche stupefatte di vederci per così tanto tempo sempre insieme nel silenzio della notte e nel dissonante vuoto ripetersi delle ore del giorno.

   Il silenzio non è eguale in tutte le case, non è eguale il rumore, né l’ascolto; forse sono uguali le preghiere e le bestemmie: chi s’accende d’ira, chi perdona, chi odia, chi arde d’amore mistico, chi arde di amore carnale. È da sempre questa la lontana storia dell’uomo. In questa quiete inquieta quelli che sono soli come cani e non hanno nemmeno un bastardo o bastardino per compagnia. E quelli che, esenti da virus, sono malati, vecchi e soli: la loro speranza è come una lattuga avvizzita su un marmo. E quelli che sono in salute, ma soli. “Sono a pezzi. Questa solitudine mi piega le ginocchia, mi morde con la ferocia di una bestia, mi morde i fianchi e fa brandelli di me”. Questo mi scrive un amico scrittore della mia età che abita a Torino, che da sempre ha voluto ignorare la tecnologia e non possiede né computer, né smartphone. Ha solo libri. Non gliene faccio un torto. Non c’è niente che possa fronteggiare in questi giorni di clausura l’altro male che serra il respiro: la solitudine. Nemmeno i libri.

   Gli intellettuali, questi rigattieri di ottimismo e di bontà a buon mercato, con l’enfasi oscena pari alla loro insipienza, ci soffocano di ammonimenti e consigli: questa forzata reclusione riaccende il  dialogo e l’intimità tra le famiglie. E se fosse il contrario? Se la forzata vicinanza acuisse ancora di più i contrasti già esistenti tra genitori e tra genitori e figli? Imprigionare l’adolescenza e la giovinezza con i loro fremiti e sussulti e la loro ansiosa allegria, i loro turbamenti in una dimensione innaturale aiuta a sviluppare relazioni di maggiore affiatamento e amicizia? Roba da chiamare 118, se ce ne fosse ancora qualcuno disponibile! E poi: le disgrazie ci rendono migliori. Aumenterà la solidarietà, l’amore, il rispetto… Guarda tu, non ci avevo pensato! Bella, benefica sventura che aiuta l’uomo ad essere più buono, più solidale, più amorevole verso l’altro! Ben vengano, dunque, altre calamità: saranno foriere di un mondo migliore! A me sembra invece che in tempi di pericolo, come questi che stiamo vivendo, sparisce la preoccupazione verso gli altri: dove è finita la disperazione dei migranti? E la Siria? E la Turchia? E i diritti umani conculcati in mezzo mondo? Devo ricordare io a questi maestri di pensiero quello che diceva David Hume? Che preferiamo la distruzione del mondo a un graffio sul nostro dito. Di fronte alla stupidità di questi intellettuali anche gli dei sono impotenti.

   Non credo dunque, caro Franco, che diventeremo più solidali e più buoni, una volta scampati al pericolo. Saremo, come sempre, vittime della forza dirompente dell’oblio. E ci sarà anche un effetto rimbalzo: Adesso che posso muovermi liberamente mi dovrò rifare del tempo perduto. E via quindi di corsa al fare, al consumare, al guadagnare. Non ci sarà un Uomo migliore. Ci saranno, come prima, uomini migliori e uomini peggiori; i primi saranno come sempre di gran lunga la maggioranza.

   Ancora, sempre gli intellettuali sui libri: i libri sono bussole per capire ciò che ci sta succedendo intorno! AughQuesti demiurghi d’accatto ci rompono i timpani (stavo per dire un’altra parola): approfittate di quest’emergenza, prendete un libro in manola nostra patria comune è la lettura, la nostra civiltà sono i libri. Magari ci dicono anche la posizione che dobbiamo assumere per gustare meglio la lettura: naturalmente quella suggerita da Calvino nel suo “Se una notte d’inverno un viaggiatore”. Questi malcreati non temono il ridicolo. Non lo sanno che i lettori di libri in Italia sono una minoranza? E la maggioranza che non legge è incivile? E poi quand’anche fosse come loro dicono, sarebbe difficile consolare un papà o una mamma con la lettura se non ci sono soldi a casa come in milioni e milioni di famiglie. Senza mangiare non si può neanche pregare. Allora ai senza speranza non resta che sperare oltre la speranza?

   E poi accanto a questi pensatori ben figurano quelli che dicono che Dio ci ha mandato questa piaga per metterci alla prova. Alla prova di che? A tribolazioni il Misericordioso  aggiunge altre tribolazioni?

   Lo so, tutti in questo momento, scettici e credenti, abbiamo bisogno di luce (la sconfitta del morbo), e di alzare lo sguardo verso la speranza come il cieco del Vangelo, Bartimeo (Mc,10, 46-52).

Gli uni sono certi che le tenebre saranno squarciate dall’intelligenza dell’uomo e usciremo da questo incubo con cuori riconciliati, gli altri confidano  nello Spirito Santo.

Beati costoro, caro Franco, che si crogiolano nel morbido letto garantito dalle loro certezze! Tapini noi che stiamo seduti sulla sedia instabile del dubbio.

  Caro Franco, caduto il giorno, la notte ci chiude nel cubicolo dell’ansia; ci avvolgeva un tempo nel calimma. Ricordi Natale in casa Cupiello?

   Un giorno fummo detti felici. Ora chi siamo? Siamo l’ansia del presente, siamo il futuro dello sconcerto. E se l’estate ci troverà ancora chiusi in casa? E l’azzurro cielo e l’azzurro mare e l’aroma della campagna? Non vedremo nel  cielo agostano cadere le stelle, non vedremo librarsi sulle spiagge l’aquilone dei nostri nipoti e all’improvviso schiantarsi a terra. Come le nostre certezze e incertezze.

  Ogni mattino riluce diafano il silenzio. Nel chiarore  marrone delle tegole osservo una coppia di colombi che tuba. Sempre la stessa. Ma sono monogamici i colombi? Dopo qualche istante arriva l’intruso e viene scacciato. Come hanno passato la notte queste creature? So che tra gli uccelli sono gli unici capaci di succhiare l’acqua senza alzare il capo per ingurgitarla. Li osservo spesso dalla mia postazione: la finestra che affaccia su un tetto più basso.

   Come sono rumorosi, caro Franco, i ricordi nell’inerte attesa che passi la nottata! Sento di notte il cancelletto che cigola spinto dal vento. Dicono che l’immaginazione è una risorsa della vita nei momenti drammatici. Forse. “Forse s’avess’io l’ale//da volar su le nubi,//E noverar le stelle ad una ad una,//O come il tuono errar di giogo in giogo…”[1], andrei a Crotone a rimirare la mia piccola campagna a Poggio Pudano. Non è più mia, ma il nuovo proprietario mi chiama di tanto in tanto per rassicurarmi: è come prima.
Avanti, Franco, fammi compagnia, andiamo!

   Eccoli! Il mandorlo, il pero, il melo, il melograno, l’albicocco, l’amarena, l’arancio, il limone, tutti in festa e sorridenti! Tutte creature mie e di Rosa. Eravamo due provetti contadini all’epoca! Ma chi devono festeggiare? Non lo sanno che un invisibile mostro dalle fauci immense sta per fare un boccone dell’orbe terracqueo? Esagero, dici? Lo spero anch’io. Ma forse mi hanno riconosciuto e vogliono festeggiare me. Gli alberi e i fiori dialogano tra di loro e con l’ambiente: questo è un dato scontato. Ma che lo facciano anche con gli uomini rimane un mistero. Sono gli alberi e i fiori, caro Franco, gli unici inguaribili messaggeri di pace. E di speranza. Vedi, là come scintilla il giallo di margherite. La forza bruta dell’uomo può distruggere un vasto prato di margherite; alla prossima stagione ricresceranno. A ogni stagione ricresceranno, sempre, nei secoli dei secoli. Nella loro caduca e risorgente gloria i fiori rinascono sempre sopra strati di terra ingentiliti dalla mano dell’uomo o intorpiditi dal suo odio sanguinario.

   E i gelsomini con il loro piccolo bianco dall’effluvio stordente, avidi di luce!

   E le macchie d’oro, e quelle verdi, e quelle bianche dei fiori campestri. Guarda! Rigenerante visione! Chi devono gratificare con la loro bellezza? Questa umana terribile creatura responsabile di ogni male nella sua frenesia di dominio? La nostra hybris è diventata insostenibile. Le foreste,  i polmoni della terra, i suoi custodi, da quella amazzonica a quella fluviale del Congo e alla Boreale, vengono disboscate, bruciate, infettate da uomini il cui unico Dio è il denaro. Ora i custodi spugnosi del nostro soffio vitale, i polmoni, sono aggrediti dalla virulenza del morbo. È una sorta di nemesi storica del regno vegetale?

   La roccia della globalizzazione che incomincia a scricchiolare lascerà, quando sarà del tutto crollata, intravedere qualche pepita d’oro, come la solidarietà tra gli uomini semplici, soggiogati ora dal nuovo-vecchio ordine mondiale, il neoliberismo, l’odierno male assoluto? Perdona, Franco, queste tediose geremiadi.

   Torniamo alla bellezza. Guarda la delicata superbia dei gigli, fugace effigie di palpito celeste.

   Ah, il roseto imperlato di rugiada al mattino e il suo profumo imperiale! Non lo sanno le rose che dopo la scomparsa dell’uomo anch’esse faranno una brutta fine, soffocate dal roveto?

   E quel campo tutto di cardi selvatici – li mangiavamo io e Rosa scottati con olio e  limone – screziato dal rosso carminio dei papaveri intrepidi a sfidare sull’esile stelo la selva di spine di quei tracotanti! Saranno capaci gli uomini, degni, di affrontare il virus coronato e sconfiggerlo?

   E gli asfodeli, tanto belli ma che con il loro fetore asfissiano le umili resede e verbene intorno dal profumo così delicato! Ma nemmeno lo immaginano quei puzzolenti che cosa sarà il puzzo di cadaveri insepolti!

Vedi quell’agave ancora piccola all’estremità del giardino? Fiorisce una sola volta e muore. Fiorirà tra dieci anni! Lo sa la nobile pianta che, prima di portare a compimento la sua fioritura suicida, degli uomini non ci sarà nemmeno l’ombra?

  Tu non sai, Franco, essendo vissuto sempre in città, la babele di voci nell’aria che cessa alle prime ombre della sera quando il timido allocco intona il suo canto d’amore notturno! Di notte il silenzio in campagna è gravido di vita a differenza di quello cittadino foriero di insidie: ma lo sanno i cari notturni rumori campestri che presto arriverà la notte in cui nessuno più li ascolterà?

   E le voci del vento! Ancora adesso ci ammaliano di notte, capita anche a te, vero?, trasportandoci in luoghi lontani, scordati. Ma non lo sanno quelle voci che tra qualche mese nessuno più le ricorderà?

   E la pioggia! Proviamo un dolce piacere quando di notte cade vellutata sul tetto, ma quando arriva improvvisa e fracassona, scrosciante sui vetri delle finestre, ci chiediamo sempre: quando smetterà? Capita pure a te, vero, Franco? Lo sa la pioggia che di qui a pochi mesi non ci importerà più  nulla sia che cada lieve o con fragore sul pezzetto di terra sotto il quale dormiremo il sonno della notte senza fine?

   Che voce avrà la Parca quando ci chiamerà? Te lo sei mai chiesto, Franco? Forse la sua voce si confonderà con una delle tante voci del vento per non spaventarci. E noi ci accomiateremo dal mondo all’umida luce della luna o al buio inconsolabile di una notte nera?

  Guarda, guarda, come si lasciano soavemente trasportare dal vento i ciuffi bianchi dei denti di leone. E quella splendida giunchiglia delizia della vista e dell’olfatto!

  Ah, la pianura tutta a grano! Osserva: non sembra un mare verde mosso da un Grecale morbido e sinuoso?

Ecco, qui, sotto questo l’ulivo, adagiato su una sdraio, mi lasciavo disorientare dal friggio delle cicale che scemava col declinare della luce fino a cessare quando arrivava il buio cricchiante dei grilli.

Che dolci sensazioni, che ebbrezza, che beatitudine!

Due farfalle (sempre le stesse? Possibile.) mi danzavano attorno, mi sfioravano il viso e si perdevano. Io mi perdevo nel tempo e mi rivedevo bambino correre ansante con la rete in alto nell’aria innocente di maggio e mai che ne catturassi una. Così perso, mi prendeva il conforto del sonno.

Mi svegliavo alla dolce carezza di Rosa.

Tuo Toto

[1] Leopardi, Canto notturno di un pastore errantedell’Asia.

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