Lettera ad un amico

Non capita certo tutti i giorni che un carissimo amico invii una Lettera dal significato così intenso e dal sapore palesemente letterario come la seguente, che Toto Carnuccio ha voluto idealmente e affettivamente rivolgere alla mia persona e in cui traccia riflessioni molto toccanti sulla drammatica vicenda del coronavirus.  L’omissione quasi completa della punteggiatura risulta una scelta stilistica dettata dall’esigenza d’intonare il testo alla drammaticità di detta vicenda. Vale proprio la pena leggerla.

 A Franco Federico, il più caro degli amici più cari.

           Carissimo,

tu sai che dopo mia moglie e i miei figli nella gerarchia dei miei sentimenti vieni tu. Ci sentiamo due tre volte al giorno e mi dai ascolto e mi dai sollievo e non ti sento mai chiuso dentro il panno della tristezza. Quando mi senti giù io sento il sibilo dello schiocco della tua frustata addosso alla mia tristezza mentre accendi i lumi di qualche tuo ricordo d’infanzia o aneddoto o storiella adolescenziali caricando il racconto di contorni comicamente erotici ed eroticamente inverosimili e continui finché non senti i miei sbruffi di risa. Una volta sei riuscito a far sorridere persino Rosa che seguiva la tua storiella al telefono a viva voce. Di questo, sopra ogni cosa, ti sono infinitamente grato. Prima dello scoppio della bomba-virus ero strafelice  al pensiero che tu e Angela sareste venuti a Monterotondo e ci saremmo riuniti con Mario e Marisa, Alberto e Sabina, e addirittura Pino da Milano ci aveva fatto il pensierino. Passo ad altro.

Dal giorno in cui il virus ha sbaragliato le nostre abitudini e la paura ci tiene al guinzaglio in casa, i tuoi pensieri del giorno sulla chat sono magnificamente monocordi: sul morbo. Sono tutti belli, intensi, partecipi, colmi di saggezza e lasciano il segno nel tessuto della nostra coscienza.

   E ora ecco le mie impressioni sul senso dell’umano e delle cose nei giorni del virus.  Ed ecco spiegato il motivo di questa mia lettera.

   Nei giorni del virus la paura ridacchia dentro le case passeggia pavoneggiandosi per le vie e strade deserte insegue chi si rifugia in campagna spia dalle grate all’interno delle prigioni       La notte è bella solo per lei solo lei sente l’odore di quest’ultimo bellissimo scorcio d’inverno che annuncia la primavera        Lei è in cielo in terra negli oceani e non aspetta il consenso dei vivi per apparire figurarsi se lo aspetta dai morti quando s’affaccia dalla TV e  snocciola il bollettino di guerra       Nessuno può poggiare la mano sulla bara sconfortata del familiare      Non c’è più chi scende e chi sale chi esce e chi rientra      Ha spazzato via il lieto rumore dei fanciulli nei parchi ha ammutolito il coro della giovinezza nelle scuole e nelle università       Ci ha tolto lo spettacolo dell’alba e del tramonto      Reggia e tugurio si equivalgono di fronte  a lei       Tornerà l’ansia allegra di stare insieme in ascolto di noi passando il bicchiere di mano in mano?        O rimarranno in pochi  e saranno così deboli che non riusciranno  ad accendere il fatuo lume della memoria?        Basterebbe che si salvasse –  tra chi resta – l’abitudine di chiamarsi per nome e non separarsi più dalla strada maestra per camminare coi propri fratelli dove ognuno indossa gli abiti dell’altro e se dissente dall’altro questi gli fa una carezza        Risentire l’odore più buono del mondo quello del pane appena sfornato l’odore di caffè nel bar di primo mattino l’odore d’incenso nelle chiese        Chi strimpella il piano con poche note?     Non ditemi di sentirlo!        Ora piange una chitarra e al suo malinconico arpeggio si riuniscono le ombre      Qualcuna ride qualcuna piange qualcun’altra si schermisce in un delirio leggiadro      Ognuno avrà un pezzo di terra per sé ma non una lapide bianca…

   Sai,  Franco, sotto quali sembianze si presenta a me la paura?  Un simulacro col viso fasciato di bende, solo gli occhi, due  biglie madreperlacee, si vedono. È davanti a me. Dice:

<<Tu sei nonno?>>.

<<Sì, certo>>.

<<Ho visto bambini e bambine ragazzi e ragazze sorpresi  e disperati senza più la nonna o il nonno…

Perché mi hai chiamato?>>.

<<Io non t’ho chiamato. Ma ora sei qui e ti chiedo se è più raro l’amore adesso o prima del virus>>.

<<Ogni cosa ha il suo prezzo>>.

<<Non capisco. Che vuoi dire? Che anche l’amore ha un prezzo?>>.

<<I mattini sono deserti, ogni ora del giorno è deserta. Nulla vi attende se non un’eguale sventura.

Ma tu, com’è che sei così calmo?>>.

<<Sono deluso d’attendere. La lentezza dell’ora è spietata e io non attendo più nulla. Ma resto sempre in ascolto di  chi m’invoca ogni istante. Sarà ombra anche lei. A chi devo rivolgermi perché la sua e la mia ombra si fondano in una?>>.

     Caro Franco, in questa tempesta di silenzi la più silenziosa è lei, quella che gli uomini raffigurano con uno zendado nero sul capo, dal ghigno terrifico con la falce in pugno pronta a colpire; ma non è così, ha un sorriso triste, si è seduta in fondo alla stanza, stava aspettando fuori, l’ho fatta entrare così prendiamo confidenza; dice che se fosse per lei se ne starebbe buona buona, dice che se fosse per lei verrebbe a prenderci tutti al compimento dei nostri cent’anni, dice che lei viene se la chiamiamo e va dove gli uomini la mandano, dice che lei non conta un bel nulla, sono gli stupidi e i carnefici e i virus che decidono le sorti dell’umanità e dice che anche lei sente l’amarezza di questa vita estranea alla vita umana. C’è lui, quello che entra in qualsiasi casa senza bussare, seduto all’altro angolo della stanza, è un furbastro che fa finta di dormire e mi guarda sottecchi con un risolino da brivido, per poi all’improvviso azzannarmi fisico e psiche. Certo che paura dolore e morte formano un trio coi fiocchi in giro per l’universo mondo! In questi giorni in cui l’evidenza torna a farsi oscura è con pallida ragione che ragiono anch’io. Sull’uomo.

 Caro Franco, stordente mi risale alle labbra il primo stasimo dell’Antigone di Sofocle. Ricordi?

<< Molte cose nel mondo ispirano sgomento; nessuna più dell’uomo. Gli uccelli spensierati, le fiere, la stirpe marina dei pesci: a tutti ha teso reti l’astuzia dell’uomo e li ha catturati. Ha domato le bestie selvatiche, utili solo a lui, piegandole sotto il giogo. Ha appreso la parola, sviluppato il pensiero, conosciuto i fondamenti della società. Ha imparato a difendersi dal gelo e dalla pioggia. Nessuna conquista gli è vietata e contro ogni futuro trova risorse. A malattie invincibili ha trovato e troverà rimedio>>. Lo troverà anche in questo frangente? L’uomo! Padrone della scienza e del pensiero, padrone delle tecniche oltre ogni speranza, si può volgere al bene e al male.

   Spesso, spessissimo, egli ha accolto il male accanto a sé. L’uomo! Di generazione in generazione ha trasgredito l’ordine che lo innalza al di sopra delle fiere: Tu non ucciderai! Fece della scienza la sposa dell’odio, e insieme generarono stragi e genocidi irridendo al sacro rito, che distingue l’uomo dalle belve, di seppellire i morti. L’uomo! Lascerà la terra deserta di ogni passo? Irriderà la voce del poeta? Il poeta che piange: Non veste più il sole i campi dei suoi raggi d’oro, non cantano gli uccelli dei boschi, né le gemme annunciano la primavera, non parla il fiore all’altro fiore, non mormorano foglie e ruscelli, non si dispiega libero il vento tra la cime dei monti, non sono più intenti i bimbi ai loro giochi, non si abbandonano ai loro sogni gli innamorati, non gioca il papà col suo piccolo, non strilla la madre al suo monello.

Ah, terribile sventura… Su questo febbrile 2020 si libra il morbo-avvoltoio  e mette alla prova le nostre verità dal luccichio di latta. L’uomo!

I poeti che vorranno alzarsi a parlare, lo facciano  non in nome dell’uomo perché non esiste l’unicità della condizione umana. Non esiste l’uomo, esistono gli uomini. La sofferenza dei più, insieme con la loro resistenza, sia l’essenza del loro canto. Alzino la loro voce soprattutto  in nome di tutti i bambini perché loro, sì, tutti possono portare sul petto la scritta: io appartengo all’umanità.

   Signori della minaccia e dell’odio, voi che coprite di sangue i fiori il grano la rugiada,   che avete rubato la luce ai neonati, voi che avete spezzato la penna del poeta e pugnalato la tenerezza, che cosa avete nascosto per domani?

    Caro Franco, l’ultima velatura della notte si dilegua. Per primo si presenta alla vista il poggio verde dei cipressi: il camposanto a un tiro di schioppo in linea d’aria da qui, il suo muto coro si amplifica come una vibrazione musicale: Ti aspettiamo…

    Mi ritrovo a volte poco lucido come in questo momento. Peccato non poterti abbracciare per l’ultima volta prima che mi involi nel Nulla.  Con me ti abbraccia tutto il bene che ti voglio. Ciao.

                                                                                                                                 Tuo Toto.

Monterotondo, 20 marzo 2020

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