I “RACCONTI PETILINI” di Antonino Cosco

La recensione che segue è stata redatta in occasione della presentazione del libro di A. Cosco che, organizzata dall’Associazione Culturale Tommaso Campanella, si è svolta a Petilia Policastro l’8 giugno u.s.

       I “Racconti petilini” di Antonino Cosco s’inquadrano in quella tendenza che va sempre più diffondendosi ai giorni nostri e che è volta al recupero della storia, delle usanze e delle tradizioni delle diverse realtà locali. Comuni, Provincia, Scuole, Pro loco ed Associazioni culturali, assecondando tale tendenza, incoraggiano i cultori di storia locale a proseguire i loro studi e ad approdare a risultati rilevanti, per cui si può ritenere che pochi paesi siano rimasti ormai senza la loro storia e il loro aedo.
Ma occorre saper distinguere le ricerche storiche serie e mosse da autentica esigenza di cogliere l’essenza profonda del più o meno recente passato da quelle superficiali ed inconsistenti che risultano ispirate unicamente dalla moda del cosiddetto revival. Nella scuola, ad esempio, dietro la spinta del revival, in più di un caso, si è dato e si continua a dare vita a prodotti teatrali di scarsissima qualità, tesi cioè ad un recupero generalizzato (anche degli aspetti più deteriori) che mira unicamente al facile divertimento o alla mummificazione acritica del nostro passato.
L’opera di Cosco, rispondendo ad una personale esigenza di espressione interiore, sembra ispirata da propositi, tutt’altro che superficiali, di riflessione sul passato. Per esplicita dichiarazione dell’Autore, i “Racconti” vogliono essere innanzitutto un atto di amore alla sua Petilia: la rievocazione cioè è condotta sul filo dell’emotività e dell’affetto. I destinatari sono individuati nei giovani e, comunque, in coloro che verranno : “scrivo perché vorrei dare a quelli che saranno un’idea di come vissero i fratelli che sono e che furono. Fatti, ritratti, siti…(…) Vado alla scoperta del valore delle anime semplici e buone, che hanno dato un senso ed un valore imperituro alla convivenza civile ed umana nel piccolo ed austero costume della nostra dolce collina. (…) Oltre che di persone parlerà di piante, di animali e di luoghi, per significare come l’amore può conferire importanza vitale ad ogni soggetto od oggetto su cui irradia la sua luce” (p. 12-13).
Dalle finalità dell’opera, manifestamente enunciate nella Prefazione, non è difficile cogliere quale immagine Cosco voglia esprimere del passato e con quale atteggiamento si ponga nei suoi confronti. La prospettiva è decisamente quella dell’idoleggiamento dei tempi dell’infanzia e della giovinezza e gli schemi tipici, ovvero gli stereotipi, dell’impianto nostalgico non mancano: “questa società gelida”; “cuore sincero di quel tempo”; “tra la gente del passato un po’ di calore umano” (pp. 73, 79, 80).
L’atteggiamento nostalgico è speculare alla piena consapevolezza che negli ultimi decenni cambiamenti profondi sono venuti a determinarsi nella vita dei nostri piccoli centri; che nel tempo delle telecomunicazioni e della globalizzazione le tradizioni e le culture locali tendono inesorabilmente a scomparire, travolti come sono dall’incessante processo di omologazione. Il degrado sembra non risparmiare nessun aspetto della nostra vita. La vecchia società non esiste più e quella che ha preso il suo posto non possiede ancora una sua precisa identità, imprigionata com’è tra l’antico e il moderno. La consapevolezza di Cosco è comprensibilmente condivisa da tutti coloro che, come lui, hanno ormai più anni dietro che davanti a loro.
Per la sua rievocazione, Cosco si affida essenzialmente al ricordo personale: della maggior parte degli episodi che racconta e delle figure che descrive ne è venuto direttamente a conoscenza. Ma, quando vuole spingersi più indietro nel tempo, allora ricorre al racconto della “trentina di vecchi della piazzetta Marconi” dai quali – come fa il moderno studioso di demologia – raccoglie appassionatamente “notizie di vetuste tradizioni di festività laiche e religiose, di ricorrenze ormai scomparse e dimenticate, di luoghi storicamente rilevanti, di vecchi mestieri, di guerre, di amori, di misfatti, e di fatiche immani, di avventure e disavventure, di antiche credenze e superstizioni” (p. 137-38).
Dal titolo, dalle due Prefazioni (sia quella di Anna Cosco che dell’Autore) e dai primi “pezzi” inseriti nel volume, si sarebbe indotti a ritenere che si tratti di una raccolta di racconti fantastici, ovvero di una narrazione avente come sfondo Petilia Policastro, il paese appunto di Antonino Cosco. Mano a mano che si va avanti con la lettura ci si accorge, invece, che il racconto riguarda non solo persone ed episodi reali del passato, ma anche persone del tempo presente, cosè che l’opera oscilla costantemente tra memorialismo e giornalismo.
Come si ha modo di comprendere attraverso qualcuno degli ultimi “racconti”, come per esempio “Sabatino” (p.122) in cui il riferimento risulta esplicito, il volume è nato come raccolta di una serie di pezzi giornalistici, a suo tempo composti per il Mensile “Il Petilino”. All’omaggio affettuoso per il petilino defunto o alla rievocazione storica del fatto tragicamente singolare risulta affiancato l’omaggio, ovvero l’attestato di stima e di amicizia, per il petilino vivo e vegeto. Si tratta, cioè, di pezzi nati, non necessariamente da un disegno organico, unitario, ma come unità autonome, anche se l’Autore, pur avendoli concepiti inizialmente per il giornale, può tuttavia aver pensato fin dal primo momento alla destinazione finale del libro, per cui una rete di intrecci, sia pure semplice ed elementare, può essere stata immaginata dall’Autore tra un pezzo e l’altro.
Scegliendo di accostare nei suoi racconti i vivi ai morti, Cosco ha finito con l’alternare il tono rievocativo con quello del cronachismo giornalistico, scivolando, quasi certamente senza volerlo, nell’enfatizzazione, ovvero nel privatismo soggettivistico o nella celebrazione che sa d’incensamento e d’incredulità. Petilia è realtà troppo piccola perché l’esternazione amicale di un elogio, per quanto affettivamente ispirato, possa dal lettore non essere accolto con severità di giudizio critico.
La Petilia rievocata da A. Cosco è quella della grande miseria, della diffusione dell’analfabetismo, dei matrimoni precoci, della preoccupazione per la nascita della figlia femmina e della partecipazione massiccia ai funerali. Marramà si può considerare come l’emblema di questa vita di stenti e, nel contempo, dell’accettazione rassegnata del proprio destino. Un’altra immagine emblematica della stessa è data dalle case formate da un’unica stanza.
Cosco raffigura l’indigenza estrema della Petilia del dopoguerra, senza tuttavia fare eccessivi cedimenti né a descrittivismi dal sapore straziante, né a pietismo vittimistico. La sua rappresentazione, anzi da questo punto di vista, appare sobria e piuttosto equilibrata in relazione al dosaggio dei toni.
Caratteristica fondamentale di Cosco è quella di fondere il momento della rievocazione con quello della riflessione. La sua tecnica narrativa è costituita proprio dall’alternanza della memoria con la riflessione, ovvero dell’immagine lirica col ragionamento. Egli, cioé, non si limita a rivitalizzare “fotograficamente” l’episodio o il personaggio, perché non gli interessa in alcun modo effettuare un recupero statico e fine a se stesso della realtà del passato. Gli piace, invece, filtrare il ricordo col ragionamento, intrecciare il momento lirico-espressivo con quello critico-riflessivo.
Può accadere, tuttavia, che – come ne “La città del silenzio” – questi due momenti non siano equilibratamente dosati fra loro, per cui la riflessione, prendendo il sopravvento, esautora completamente la memoria. Sono le parti dell’opera in cui a risentirne è inevitabilmente lo stesso stile, il quale – perdendo scioltezza e diventando meno felice sotto l’aspetto lessicale e per l’uso eccessivamente disinvolto o improprio della virgola – si fa meno accattivante. Va, tuttavia, precisato – a scanso di equivoci – che l’espressione ha esiti generalmente felici e che qualche dissonanza stilistica si scorge solo nelle parti discorsive, molto più raramente nelle altre. L’attrazione irresistibile dei “colì”, dei ” d’onde”, o dell'” uso a” tradisce, invece, qualche esitazione lessicale.
Altre volte, invece, come in “La terra della vita e dei misteri”, la riflessione prende il posto della memoria, ma senza insidiare, neppure di poco, la bellezza dell’espressione o limitare il ricorso alla vivacità espressiva delle immagini. Un ragionamento espresso in una prosa molto felice è costituito da quello svolto sui camini delle case moderne: “Purtroppo molti di questi camini sono destinati a non conoscere mai il fuoco e a restare monumenti vuoti, sacri altari senza culto, tumuli domestici senza reliquia, freddi pensieri di avelli fuori luogo” (p.39).
Per lo spazio dato al ragionamento, la scrittura di Cosco si può opportunamente definire “moraleggiante”. Ma si tratta di un moralismo facilmente condivisibile, basato com’è sul buon senso, e nient’affatto fastidioso. Le cose che egli ci racconta corrispondono perfettamente a ciò che nel passato hanno avuto modo di constatare anche i lettori che hanno più o meno l’età dell’autore; ma, nel rinvenirle nei “Racconti petilini”, gli stessi provano quel piacere che possiamo definire della “riconferma”. E’ cosa molto improbabile che il lettore possa non essere d’accordo con il ragionamento di Cosco quando egli su argomenti, come l’agricoltura biologica o il coraggio, la paura, ecc., sviluppa considerazioni molto assennate e perspicaci.
Ad impreziosire l’opera è, più di ogni altra cosa, la ricostruzione precisa, minuziosa di usanze che, come quella dello “zummune” (pp. 39-42), non sono conosciute neppure da petilini non più giovani. Cosco si trova completamente a proprio agio quando si occupa dell’antica tecnica di costruzione delle case o della ferratura degli asini e dei muli: si comprende facilmente che egli nutre grande interesse verso questi aspetti che arricchiscono la sua pagina e la rendono molto interessante dal punto di vista storico-etnografico.
Tra i racconti più significativi vanno, senz’altro, annoverati “Lo schiaffo” (p.68) che attesta il forte senso comunitario e la grande solidarietà dei petilini di un tempo; “Il coraggio e la paura” in cui si narra la “curiosa esperienza” occorsa al piccolo Nico nell’estate del 1951; “Il Calvario” in cui la fervida ed intensa religiosità di una volta è esemplarmente raffigurata nel pellegrinaggio in ginocchio della donna senza nome, ma quanto mai viva e partecipe di una sofferenza senza eguali.
Il giudizio di Cosco sulla Petilia di oggi si trova racchiuso in “Petilia dorme e non sogna” dove sono enumerati, uno dopo l’altro, i mali di cui soffre la società petilina: l’individualismo “che isola ed uccide l’entusiasmo dei giovani”, la rassegnazione, la critica liberatoria e sterile. Severo è il giudizio, ironicamente espresso in “De Cuccis, cane di piazza”, sulla politica paesana, fatta da galoppini e in balia della rissosità, dell’invidia e dell’ostinata convinzione che ” la tecnica più affidabile per andare avanti fosse quella di parlare… parlare… parlare… e, parlando, camminare all’indietro come i gamberi” (p. 56).
Certo, di fronte ad un autore come Cosco, approdato all’attività letteraria in età più che avanzata e che ha già al suo attivo la bellezza di sette opere, oltre ai “Racconti petilini, è legittimo porsi domande come le seguenti: quale possa essere stata la molla di questo tardivo approdo letterario (che ha tuttavia un precedente illustre, quello dello scrittore inglese Daniel Defoe che scrisse il famosissimo “Robinson “Crusoe già sessantenne); quale sia la sua storia formativa; quali le sue predilezioni letterarie; quale il senso dello scrivere nella sua esistenza, ecc.
Alla prima e forse più importante di queste domande risponde lo stesso Cosco alla fine del libro, ne “L’artista è sulla scena ” in cui, seppure in forma problematica, dà più risposte interessanti che meritano di essere riportate a conclusione del nostro discorso. Dietro al “narratore che racconta una storia” ci può essere il bisogno di “vedersi realizzati e mostrati nella personale espressione dell’intima essenza del proprio spirito”, oppure può essere “generosità il volere regalare al prossimo l’immagine di sentimenti e pensieri propri” o “è puro istinto di conservazione il desiderio di sopravvivere a se stessi, lasciando negli altri qualcosa di sé …”.

Biblioteca Comunale di Petilia Policastro, 8 giugno 2002

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