Grazia Deledda

       Nata a Nuoro nel 1871 in una famiglia benestante, è la quinta di sette figli e con le più rappresentative scrittrici della letteratura compresa tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento ha in comune soprattutto la formazione da autodidatta. Durante la giovinezza, la sua vita fu segnata da alcuni tragici eventi familiari, come l’abbandono degli studi da parte del fratello maggiore che diviene presto un alcolizzato; l’arresto per piccoli furti del fratello minore Andrea e la morte prematura del padre, che fece precipitare la famiglia in una grave crisi economica.

          Nell’arte narrativa della Deledda, fin dalle prime prove letterarie, si impressero vivamente la vita e la cultura del paese natio, il cui ricordo portò con sé a Roma dove, a partire dal 1900, andò a trascorrere il resto della vita, costituendo una costante della maggior parte della sua produzione. Tuttavia, il suo rapporto col mondo sardo fu fatto di odio-amore, come quello che intrattenne Leopardi con Recanati, nel senso che la cultura sarda, da un lato, raffigurava le proprie radici, ma, dall’altro, un limite alla propria sete di novità e alla tanto agognata conoscenza del mondo posto aldilà dei confini della propria terra.

           A consentirle di realizzare il grande desiderio di allontanarsi dall’ambiente chiuso e opprimente dell’isola e di approdare nella capitale fu il matrimonio con un funzionario statale, Palmiro Madesani, che Grazia sposò nel 1900. Così, come altre scrittrici dell’epoca, conobbe la vita di coppia, la maternità e la condizione di disagio sociale, che allora era propria anche delle donne appartenenti alle famiglie aristocratiche e benestanti, alle quali erano normalmente precluse le carriere in ogni campo professionale.

            La capitale, comunque, rappresentava per la Deledda, oltre che un’occasione di fuga dal paese natio, la possibilità di accedere finalmente ad un mondo più dinamico e attivo dal punto di vista culturale e artistico, ma essa non si adattò mai a frequentare con assiduità i salotti letterari, com’era consuetudine dell’epoca. L’allontanamento dalla Sardegna le consentì, comunque, di frapporre tra sé e i ricordi la distanza necessaria a renderli oggetto di contemplazione e di ravvisare nella realtà sarda le caratteristiche universali della vita umana, come sta a dimostrare il conferimento del premio Nobel, assegnatole nel 1926, al culmine della sua attività letteraria.

     Si preferisce circoscrivere l’attenzione su Canne al vento, l’opera più nota della Deledda, perché  può essere considerata, oltre che l’apice del suo percorso letterario, la summa delle tematiche a lei care. Il romanzo, composto alla soglia dei quarant’anni e pubblicato nel 1913, ha inizio in medias res. La vicenda si apre con l’immagine di Efix, il servo delle sorelle Pintor, il quale, sul calare della sera, raccomanda a Dio il raccolto stagionale con cui si sostengono le sue padrone. E, mentre sta per coricarsi, un ragazzino, Zuannantoni, giunge alla sua casa, per comunicargli che la mattina seguente deve recarsi in paese perché le donne di casa Pintor gli devono parlare di una questione urgente. Ad averle allarmate è l’arrivo di una lettera che si sospetta sia stata inviata da Giacinto, il loro nipote. Dopo questa notizia Efix appare piuttosto preoccupato; ma solo grazie all’intraprendenza del giovane Zuannantoni, che nella notte lo incalza con continue domande, scopriamo che Giacinto è il figlio di Lia, la sorella morta delle tre donne, Ruth, Ester e Noemi.

      Lia era scappata di casa molti anni prima, con l’aiuto di Efix, per fuggire da un padre severo e dispotico, don Zame, che morì o, come sostennero le voci del paese, fu ucciso durante la ricerca disperata della figlia. L’atteggiamento scontroso assunto da Efix nei confronti di Zuannantoni suscita nel lettore l’impressione che il servo sia coinvolto in detta morte, da anni avvolta nel mistero.

       L’indomani, l’uomo raggiunge la casa delle padrone, insieme leggono la lettera e scoprono che il nipote sta per arrivare. Le sorelle hanno reazioni contrastanti: Ester è disposta ad accoglierlo; Noemi si oppone con forza e Ruth sostiene che, una volta ospitato, se non si comporta in modo adeguato, possono allontanarlo. Il servo cerca di assicurarsi che non ci siano dissapori tra le sorelle e parla con ognuna di loro mostrandosi particolarmente premuroso. Ma detto annuncio ha ormai spezzato il fragile equilibrio e la monotona vita delle sorelle Pintor che, dopo settimane di vana attesa del nipote, si erano convinte che questi non sarebbe più arrivato.

         Solo all’inizio di maggio, il giovane si presenta a casa delle zie, dove trova Noemi che nella solitudine della sua stanza si sta abbandonando ai ricordi suscitati dal paesaggio primaverile che intravede dalla finestra. Quando si trova di fronte a Giacinto, viene colta da un improvviso timore e sgomento, pur rimanendone attratta, e fa avvertire subito Efix del suo arrivo. Dopo aver visto il poderetto lavorato dal servo, Giacinto si reca alla festa di Nostra Signora del Rimedio, dove viene accolto con affetto e calore dalle zie e dalle ragazze del paese, tra cui Grixenda, nipote della donna che in passato ha amato suo nonno.

           Dopo essersi ambientato nel paese della madre, Giacinto, abbandonata l’idea di trasferirsi a Nuoro, trascorre il suo tempo con i compaesani tra feste e giochi, paga da bere a tutti, intraprende una relazione con Grixenda e dichiara addirittura al servo di volerla sposare, nonostante lei sia orfana e povera.

      La situazione precipita quando Efix, recatosi dalle sue padrone, scopre che Giacinto non fa che dedicarsi ai sollazzi con gli amici e al gioco, così che è costretto a imprestarsi denaro dall’usuraia Kallina, e che don Predu ha addirittura firmato una cambiale a nome della zia Ester, per ricoprire i debiti accumulati a causa dei suoi vizi. Questa notizia sconvolge il fragile equilibrio delle tre donne: Ester ancora una volta si mostra disposta ad aiutarlo; Noemi infuriata si scaglia contro la sorella ed Efix, accusandoli di averlo sempre protetto, mentre Ruth, sconvolta per l’accaduto, viene colta da un malore e muore.

     Dopo la morte di Ruth, Efix cerca Giacinto per intimargli di lasciare definitivamente la casa delle zie. I due hanno un confronto aspro, durante il quale il giovane accusa il servo di esser l’assassino di suo nonno. Viene finalmente svelata la verità sulla morte del vecchio Zame; a nulla servono le giustificazioni di Efix che dichiara di averlo fatto per legittima difesa. Il servo, infatti, innamorato di Lia, l’aveva aiutata a fuggire e, quando il padre della ragazza lo ebbe scoperto, aveva iniziato a sospettare che tra i due ci fosse una relazione. Era nata una feroce colluttazione ed Efix, nello spingerlo, lo fece sbattere con la testa su una pietra, causandogli una ferita mortale. Giacinto, dopo aver ascoltato la confessione dell’uomo, sconvolto si allontanò dal paese, senza dire nulla.

       Ester e Noemi, sommerse dai debiti causati dalla condotta spregiudicata del nipote, furono costrette a vendere il podere al cugino per potersi mantenere; mentre Efix continuò a lavorare il terreno a servizio del nuovo proprietario. Con il passare del tempo, don Predu chiese ad Efix di aiutarlo a convincere Noemi a sposarlo, ma tutti i tentativi fallirono poiché la donna, segretamente innamorata del nipote, si oppose con forza all’unione con un uomo che disprezzava e che sentiva come un nemico.

            Mentre, dall’altra parte, la vecchia Potoi, nonna di Grixenda ormai vicina alla morte, supplicava Efix di convincere Giacinto a mantenere la promessa di matrimonio fatta alla nipote, che in sua assenza era divenuta sempre più triste e depressa. Il protagonista, dopo il confronto con l’anziana donna, decide di allontanarsi da Galte e dalle sue signore, convinto che la colpa di cui si era macchiato anni prima fosse la causa delle disgrazie che continuavano ad incombere sulla famiglia Pintor. Questa convinzione non fa che attestare la natura propria della religiosità popolare, caratterizzata da una dose non indifferente di superstiziosità.

         Giunto a Nuoro, Efix trovò Giacinto e cercò di convincerlo a sposare Grixenda, in modo che anche sua zia si liberasse dal sentimento che nutriva nei suoi confronti e si decidesse così a sposare don Predu. Dopo esser rimasto una settimana insieme al ragazzo, decise di recarsi a una festa dove conobbe un mendicante cieco, Ismene, che aveva appena perso il compagno che si prendeva cura di lui. I due allora decisero di stare insieme e di spostarsi da un santuario all’altro a chiedere l’elemosina.

     Efix avvertì un profondo senso di vergogna nel chiedere denaro alle persone, ma ritenne che questa umiliazione fosse per lui la giusta punizione per l’omicidio commesso. Una notte, mentre Efix e Ismene dormivano, un mendicante che si era unito a loro nel corso del cammino rubò tutto il denaro che avevano raccolto. Quando, il mattino seguente, il cieco si accorse di esser stato derubato, decise d’inseguirlo per farsi restituire i soldi.

          Efix, liberatosi dei suoi compagni, poté finalmente tornare a Galte, dove scoprì che il podere era lavorato da Zuannantoni. Apprese, inoltre, che Giacinto e Grixenda, così come Noemi e don Predu, erano ormai prossimi al matrimonio. In un primo momento, tornò a lavorare il terreno di cui si era occupato per tutta la vita, ma, poco tempo dopo, le sue condizioni di salute peggiorarono, per cui decise di trascorrere gli ultimi giorni che gli restavano nella casa delle dame Pintor, in compagnia di Ester e Noemi. Efix, poco prima della morte, confessò al prete Paskale l’omicidio commesso e così trovò finalmente pace. Si lasciò morire durante il matrimonio della padrona, con la consapevolezza che le sue signore non avevano più bisogno della sua protezione.

        Canne al vento è un titolo dall’evidente significato allegorico e, del resto, le canne, elemento tipico del paesaggio sardo, compaiono già nella prima pagina dell’opera. Efix, mentre osserva il podere dalla sua capanna e riflette, ascolta il «sospiro delle canne».  Ma che cosa si celi dietro l’immagine delle canne lo si scopre da un dialogo tra Ester e il servo sull’influenza della sorte sulla vita degli esseri umani:

 ―  Ma dimmi, dimmi, Efix ― proseguì accorta ― non è una gran cattiva sorte la nostra? Giacinto che ci rovina e sposa quella pezzente, e Noemi che rifiuta invece la buona fortuna. Ma perché questo, Efix, dimmi tu che hai girato il mondo. È da per tutto così? Perché la sorte ci stronca così, come canne?

 ― Sì, egli disse allora, siamo proprio come le canne al vento, donna Ester mia. Ecco perché! Siamo canne, e la sorte è il vento.

 ― Sì, va bene: ma perché questa sorte?

 ― E il vento, perché? Dio solo lo sa

          L’immagine dell’«uomo come canna al vento» risale, come è noto, a Blaise Pascal, che paragonò l’essere umano a detto elemento naturale, per dimostrare la sostanziale debolezza degli individui di fronte alle forze esterne che agiscono su di loro e a cui possono opporre solo il pensiero: “L’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura; ma è una canna pensante”.

              I personaggi di Canne al vento celano sempre una complessità di fondo, non risultano mai banali e sono vittime di un qualche dissidio interiore, oltre che mostrarsi succubi delle passioni alle quali si abbandonano, sprofondando nel tormento provocato dal senso di colpa. Nonostante l’orrore che provano nel violare le leggi, non sono capaci di resistere all’impulso di agire o semplicemente di opporsi alla forze da cui risultano governati. Sotto il profilo socio-culturale, si nota tra gli stessi una netta e marcata eterogeneità, che è propria della società contadina della Sardegna dell’epoca, nella quale, da una parte, stanno i nobili, spesso economicamente decaduti, e, dall’altra, i loro servi, anche se gli uni e gli altri sono in relazione fra loro.

            I personaggi di genere maschile appaiono perlopiù dei deboli, privi della forza necessaria per affrontare con dignità la vita e, proprio per questa inettitudine che li caratterizza, portano alla rovina se stessi e le persone che li circondano. Le donne, invece, sono notevolmente diverse, fedeli, leali e disposte a qualsiasi sacrificio per le persone che amano. Basti l’esempio di Efix, che può considerarsi il vero protagonista del romanzo per il ruolo decisivo che svolge nell’intera vicenda e per il legame con ogni altro personaggio e con tutti gli avvenimenti che compongono la trama.

         Efix si prende cura delle tre donne a cui è affezionato e di cui si occupa con grande dedizione per espiare la colpa che grava sul suo animo.  E, nonostante si tratti di un delitto preterintenzionale, il servo, schiacciato dal peso di questo terribile errore, cerca di punirsi servendo le tre sorelle e intraprendendo, poi, un lungo pellegrinaggio nei santuari dei paesi limitrofi. Confessò il proprio delitto in punto di morte perché, con lui in carcere, le sue padrone sarebbero state abbandonate a se stesse. Dunque, la scelta di nascondere la verità e di portare su di sé il peso di quella colpa, non deve essere letta come un atto di vigliaccheria, ma piuttosto come un gesto di altruismo verso Ruth, Ester e Noemi. Queste, dopo l’allontanamento della sorella e la morte del padre, rimangono sole, prive di punti di riferimento e vittime del disonore e delle maldicenze che i compaesani riversano sulla loro famiglia in seguito alla fuga di Lia. Efix sa di essere in parte responsabile per quello che è successo, ed è per questo che decide di rimanere accanto alle figlie di Zame, di prendersi cura di loro e salvaguardare i pochi beni rimasti.

           L’altruismo di Efix emerge anche nella parte conclusiva dell’opera, quando, sentendo sopraggiungere la morte, cerca di resistere fino al giorno del matrimonio di Noemi per non rovinarle la bellezza dell’evento. Si lascia morire solo in casa, mentre gli altri sono intenti a festeggiare le nozze. La descrizione della sua morte rappresenta uno dei momenti di maggiore intensità del romanzo. Efix se ne va in punta di piedi, nel silenzio e nella solitudine della vecchia casa dei Pintor, consapevole che, dopo il matrimonio, Noemi ed Ester non hanno più bisogno del suo sostegno, perché sarà don Predu a prendersi cura di loro. Sa, inoltre, che la penitenza è oramai terminata e, quindi, può finalmente trovare pace nella morte.

                Altre figure centrali del romanzo sono ovviamente rappresentate dalle sorelle Pintor, di cui viene messa in risalto l’inerzia che ben si sposa con l’isolamento in cui vivono e col dovere di obbedienza, che risulta quasi iscritto nell’antica legge del mondo agro-pastorale. Ciò che differenzia una sorella dall’altra è il modo in cui ciascuna reagisce alla clausura a cui sono costrette. Noemi, personaggio chiave del romanzo, è, oltre che la più giovane delle sorelle, la più dura. Vive, infatti, ancorata al suo passato, schiacciata dal rancore nei confronti della sorella che, fuggendo, ha disonorato il nome dei Pintor.

            Nel suo intimo rimane sempre viva la speranza di liberarsi dalle catene che la costringono a rimanere murata in casa. Il rancore verso la sorella, accompagnato spesso dalla malinconia, deriva dal fatto di non aver avuto la forza e la determinazione dimostrati da Lia con la fuga.  Quanto all’ambiguità del sentimento nutrito nei confronti del nipote Giacinto, vi è da riconoscere che lo stesso nasce dal fatto che è l’unico uomo, giovane e aitante, che ha la possibilità di frequentare, dopo aver trascorso una vita chiusa in casa, privandosi di qualsiasi relazione con l’altro sesso. Quindi, detta passione va considerata la logica conseguenza della lunga repressione degli istinti sessuali. Grazie anche all’allontanamento di Giacinto, Noemi, alla fine, sceglie di non seguire i propri sentimenti, ma di assecondare il proprio orgoglio nobiliare, accettando di sposare il cugino di cui non è innamorata, ma che può comunque consentirle la vita dignitosa adeguata al proprio rango. Si assicura però che le nozze vengano celebrate prima di quelle di Giacinto con Grixenda.

        Ester, la sorella più vecchia, risulta invece rappresentata come un esempio di devozione religiosa, nel senso che viene colta sempre o nell’atto di rientrare da una funzione religiosa o di uscire per andare in Chiesa; il che rispecchia la religiosità dell’Autrice e la sua adesione ai riti e ai comportamenti cristiani. La figura di Ester fa da contrappunto a quella di Noemi, che è colei che accetta con serenità la condizione in cui vive e si mostra sempre allegra, ottimista, calma e positiva, se si eccettua qualche lieve cedimento nella parte conclusiva della vicenda.

          Ruth rappresenta una sorta di figura “ombra”, nel senso che partecipa poco alla vicenda, appare estremamente posata nelle azioni e nelle parole e sembra non abbia mai vissuto né le lacerazioni interiori di Noemi, né l’allegria e la freschezza di Ester. Non esprime mai la propria opinione, lascia che siano le sorelle a decidere, per poi schierarsi con l’una o con l’altra; si rimette sempre alla sorte, subendone passivamente le conseguenze.

           Lia non è un personaggio attivo nella contemporaneità del racconto, ma viene costantemente rievocata dai ricordi di Efix e di Noemi. La Deledda si serve del suo personaggio per introdurre l’antefatto della vicenda, attorno a cui si sviluppano tutti gli altri nuclei narrativi. All’apertura del romanzo, il lettore scopre, attraverso il dialogo di Efix col giovane Zuannantoni, che la minore delle sorelle Pintor è scappata per sottrarsi alle imposizioni paterne e si è sposata a Civitavecchia con un uomo di status inferiore al suo, dal quale ha avuto un figlio. È stata l’unica delle quattro sorelle ad aver avuto la forza di ribellarsi alle leggi del villaggio.

         Anche Don Zame è presente nel racconto grazie ai ricordi e alle ricostruzioni degli altri personaggi. Custode del focolare domestico, viene ricordato come un uomo dispotico, chiuso nel proprio orgoglio e assolutamente incapace di accettare che le figlie sfuggano al suo controllo:          “Don Zame, dopo la morte della moglie, prende sempre più l’aspetto prepotente dei baroni suoi antenati e, come questi, tiene chiuse dentro casa come schiave le quattro ragazze in attesa di mariti degni di loro. E come schiave esse dovevano lavorare, fare il pane, tessere, cucire, cucinare, saper custodire la loro roba: e, soprattutto, non dovevano sollevar gli occhi davanti agli uomini, né permettersi di pensare ad uno che non fosse destinato per loro sposo. Ma gli anni passavano e lo sposo non veniva. E più le sue figlie invecchiavano più don Zame pretendeva da loro una costante severità di costumi. Guai se le vedeva affacciate alla finestra verso il vicolo dietro la casa, o se uscivano senza un suo permesso. Le schiaffeggiava coprendole d’improperi”.

                  Quanto ai temi, non vi è dubbio che in Canne al vento, come in altri romanzi della Deledda, è l’amore a primeggiare e a fungere da motore della narrazione. Prova ne è il fatto che più personaggi sono avvinti da questo sentimento, seppure in forme e modi del tutto diversi l’uno dall’altro. Un altro importante tema del romanzo è quello della colpa e dell’espiazione, intorno al quale ruota quasi interamente la sua vicenda e che risulta impersonato da Efix che, in quanto servo, non avrebbe dovuto osare rivolgere il proprio sguardo verso Lia, né tantomeno uccidere il padre delle sue padrone.

                 Non meno importante risulta il tema del fatalismo, che è tra i più ricorrenti nelle opere della Deledda. I personaggi appaiono costantemente minacciati da forze che li trascinano verso il male e a cui non possono sottrarsi. In Canne al vento, rispetto alle altre opere narrative, la sorte viene percepita come la volontà di Dio, tanto che Efix accosta l’una all’altra. Per tale legame tra la sorte e Dio, coloro che si macchiano di qualche colpa, non si sentono responsabili verso gli uomini, ma verso la giustizia divina. E Dio è concepito come colui che castiga, che punisce i peccati commessi e che richiede un lungo percorso di espiazione e umiliazione. Molto diverso da quello misericordioso che si è caricato sulle proprie spalle la croce degli uomini per alleviare, almeno in parte, le loro sofferenze. Questa immagine di Dio s’intona con la visione pessimistica della Deledda e con la rigidità che contrassegna i rapporti sociali nella realtà sarda del tempo.

                Altri importanti elementi della cultura sarda ai quali si richiama la Deledda nel romanzo sono il folklore e la magia. Fin dal primo capitolo, Efix percepisce attorno a sé la presenza di folletti, spiriti, fate e altre figure legate al mondo soprannaturale. Le presenze magico-leggendarie che nelle notti di luna popolano le colline e le valli, nei pressi della capanna di Efix, molto probabilmente sono state estrapolate da tutto il materiale raccolto dalla Deledda, nel periodo di collaborazione con le riviste di Angelo De Gubernatis, dedicate alle tradizioni popolari della Sardegna e alla cultura antropologica, che vede convivere in perfetta armonia mondo fenomenologico e mondo soprannaturale. Efix, come tutto il popolo sardo, accetta e percepisce le leggi misteriose con la stessa serenità con cui accoglie quelle della natura.

               Attraverso l’introduzione di dette figure, il lettore viene accostato alla visione del mondo, propria della popolazione sarda, alle sue leggende e alla sua cultura, così che nel romanzo, a fronte della realtà dominata dagli interessi economici e dalla compravendita delle proprietà terriere, è rappresentata quella che è legata alla sfera dell’immaginazione e al mondo metafisico. La magia che risulta presente nel romanzo è, invece, quella d’amore, di cui è vittima don Predu, una delle cui serve, gelosa delle attenzioni che egli riserva a Noemi, gli dichiara che è stato “toccato a libro”, ha cioè subito una malìa da parte della giovane Pintor; mentre l’altra attribuisce la responsabilità a Efix, che avrebbe fatto questo sortilegio per garantire la salvezza economica alle sue padrone.

       Altro tema particolarmente importante nel romanzo è quello del viaggio, che fa il suo ingresso già nell’antefatto della vicenda con il viaggio-fuga di Lia verso il Continente, dal quale prende corpo l’intera trama della narrazione. Un viaggio viene ugualmente compiuto, seppure in senso opposto, da Giacinto, che dal Continente decide di tornare nel paese della madre. La Deledda attraverso il viaggio intende rappresentare il senso di isolamento e di esclusione provato dal sardo, che, quando approdava nella Penisola, non riusciva mai del tutto ad integrarsi nel nuovo tessuto sociale.

         Un trattamento di riguardo è riservato, infine, dalla Deledda al paesaggio che, descritto nei suoi aspetti più primitivi e arcaici, viene visto come un mondo senza tempo e pervaso da una sorta di mistero. In Canne al vento esso assume addirittura un ruolo essenziale, divenendo parte integrante del racconto e, come nelle altre opere, è il legame tra i personaggi e il paesaggio che li circonda a risultare un elemento-chiave della narrazione. I paesaggi, infatti, si fondono con gli stati d’animo, di volta in volta diversi, dei personaggi, e il senso d’inquietudine e di solitudine che accompagna le riflessioni viene enfatizzato dalla natura, tant’è che il paesaggio diviene un vero e proprio specchio delle sensazioni e dei sentimenti vissuti dal personaggio.

                 L’epilogo di Canne al vento si presenta più sereno rispetto a quello di altri romanzi della scrittrice, dal momento che tutti i tasselli del mosaico sembrano ricomporsi. Anche se, analizzando le scelte dei personaggi, si può, ad esempio, notare che quella di Noemi di liberarsi della passione nutrita nei confronti del nipote e di sposare don Predu non è stata certo motivata tanto da un sentimento d’amore, quanto invece dal desiderio di garantirsi quel benessere economico che, col procedere degli anni, la sua famiglia aveva perduto.  Un diverso discorso va fatto, invece, riguardo a Giacinto, il quale dimostra di essere sì diventato un uomo maturo, ma le esperienze passate hanno comunque lasciato il segno nel suo animo, nel senso che appare più disilluso rispetto al giovane gioioso e ottimista degli inizi della vicenda. E, come tale, è il personaggio che nel corso della storia cambia. La sua scelta di sposare Grixenda non è stata dettata da alcun calcolo utilitaristico, come quella della zia che alla fine si è acconciata ad un matrimonio d’interesse.

         Quanto alla lingua e allo stile, va detto che Deledda, consapevole dell’irriducibilità del modi del dialetto sardo al cosiddetto italiano, preferì limitarsi a portare nella sua pagina termini e procedimenti formali della conversazione parlata sarda, alcuni dei quali, quando non presentano un corrispettivo in italiano, vengono tradotti in nota.  È ovviamente nei dialoghi che si colgono meglio il dinamismo e la vivacità tipici della comunicazione orale, della quale la scrittrice riproduce sia l’intonazione che il ritmo. Il periodare ha un andamento generalmente paratattico, ottenuto per lo più attraverso l’asindeto, e risulta, pur nella sua estrema semplicità, molto efficace.

          Come è noto, la critica tende a inserire Grazia Deledda nell’ambito del verismo e della letteratura regionale sarda, ma la posizione più corretta e veritiera è quella che, riconoscendo l’originalità della sua poetica, non l’assegna ad alcuna corrente. Quel che è certo è che ha tanto amato la sua terra, da descriverla anche nei suoi aspetti di arretratezza; il che le ha attirato le critiche dei suoi conterranei, che non compresero l’importanza e il grande valore artistico della sua opera. A compendiare in forma alquanto sintetica ed efficace le ragioni della sua grandezza artistica è la, pur succinta, motivazione dell’assegnazione del Premio Nobel: “Per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale e che con profondità e calore tratta problemi di generale interesse umano”.

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