La tv dei giorni nostri (I°)

          Uno dei principali effetti della nascita e della diffusione dell’emittenza privata fu l’aumento delle ore di trasmissione, tale da occupare l’intero arco del giorno (la cosiddetta trasmissione non-stop). La realtà televisiva divenne di gran lunga più invadente rispetto alla situazione precedente, nella quale la sua abituale vitalità non andava oltre poche ore serali. Per riempire questi spazi di tempo enormemente dilatati, le televisioni furono costrette ad inventare generi nuovi, che si concentrarono per lo più nell’area della fiction, e ad indirizzarsi verso film a buon mercato, ma di bassa qualità. Le televisioni private, per impegnare gli spazi notturni, ricorrevano a programmi dedicati ad un pubblico di soli adulti, come gli spogliarelli, mentre, per quanto riguarda la produzione cinematografica, in più di un caso accadeva che con molta disinvoltura le stesse trasmettessero in prima serata film assolutamente inadatti per il pubblico di quella fascia oraria, il quale era per lo più formato da ragazzi e bambini.

        Cambiando radicalmente i programmi e i loro contenuti, fu giocoforza che il sistema televisivo spostasse il proprio asse sul divertimento, ma inteso più come narcosi e istupidimento degli spettatori che come divertimento intelligente, proteso cioè, come normalmente fa la grande arte comico-umoristica, ad aiutare l’utente nel contempo a comprendere meglio se stesso e la realtà che lo circonda. Un programma, emblema di detta tendenza, fu “Drive in”, che conobbe, negli anni ’80, uno strepitoso successo per la sua formula che condensava perfettamente la presenza di belle donne scosciate, il velocissimo passaggio da uno sketch all’altro e l’estrema varietà dei generi utilizzati.

       Oltretutto, dal momento che l’emittente o il programma viene sponsorizzato dall’azienda produttrice di un determinato prodotto, si deve fare in modo che il programma piaccia ad un pubblico quanto più numeroso; in caso contrario, come è noto, l’azienda si rivolge al programma televisivo concorrenzialmente vincente. A decidere, dunque, la bontà o meno del programma televisivo sono esclusivamente gli indici di ascolto, per cui ogni altro genere di considerazione passa in secondo ordine. L’audience è divenuto così il parametro assoluto della qualità televisiva, perché “l’obiettivo è guadagnare pubblico da vendere ai committenti pubblicitari. (…) Il pubblico non va più educato ma catturato: per inseguirlo e trattenerlo lo si deve accontentare, convincere, strappare alle altre emittenti”.[1]

          E, allo scopo di catturare lo spettatore, ogni espediente è ritenuto idoneo: alzare il tono della voce, puntare su colpi di scena, persino ricorrere alle volgarità. Lo spettatore non solo va catturato, ma va anche tenuta continuamente desta la sua attenzione, perché in ogni momento può cambiare canale ed essere attratto da un altro programma. Il momento fatidico dello zapping è, come si sa, quello  degli spot pubblicitari, del quale lo spettatore approfitta per curiosare sui programmi delle altre reti televisive. La televisione viene così letteralmente invasa da una produzione di basso profilo, i cui ingredienti principali sono costituiti dall’oscenità, dalla violenza e dal sesso; quest’ultimo rappresentato in chiave fortemente banalizzata. Oppure si fa ricorso ad argomenti semplici della vita di tutti i giorni, portando negli studi la gente comune per farla parlare dei suoi problemi quotidiani.  Ovviamente, “le cose difficili, quelle più serie, quelle che non hanno grande ascolto sono da evitare. Ma, soprattutto, il pubblico non va annoiato: è bene farlo ridere o piangere parlando al suo cuore e ai suoi sentimenti, dimenticando che ha anche una testa e degli interessi non frivoli. E qui si cade in un equivoco: spesso il grande pubblico della tv non è che una piccola parte di tutti gli italiani, quelli meno colti e istruiti, meno impegnati, che vivono in realtà isolate, i più anziani. Ci si dimentica degli altri: di chi vorrebbe qualcosa di meno banale e ripetitivo. In questo modo la tv abbassa il livello della sua offerta, dei suoi programmi e del pubblico a cui vuole riferirsi”.[2]

        Altra caratteristica della neo-tv, strettamente connessa alla semplicità dei contenuti da essa trattati, è costituita dalla sua democraticità, la quale – a ben guardare – risulta comunque più apparente che reale. Il telespettatore funge da pubblico nello studio televisivo, è invitato a prendere direttamente parte alla trasmissione televisiva attraverso la telefonata; in molti casi, è chiamato a svolgere il ruolo di concorrente in giochi televisivi, viene frequentemente intervistato per strada; e così via. Insomma, in sintonia con gli atteggiamenti populistici che Berlusconi andava inaugurando nei primi anni ’90 in politica, la tv si andava fregiando sempre più di democraticità e di populismo.

           Un altro mezzo ritenuto alquanto efficace per sedurre lo spettatore è quello della spettacolarizzazione, a cui non si rinuncia neanche nei telegiornali, schiavi anch’essi dell’audience e nei quali, pur di vincere la battaglia degli ascolti, si arriva a trascurare gli eventi socialmente e culturalmente rilevanti, per puntare – come capita ancor più di constatare ai giorni nostri, in cui un telegiornale assomiglia quasi perfettamente all’altro – sui fatti di cronaca nera, i cui sviluppi vengono analizzati, giorno dopo giorno, come nelle telenovele. Inoltre, “molte informazioni sono soltanto frivole, di piccola cronaca o di puro e semplice valore spettacolare. Il che equivale a dire che sono sprovviste di qualsiasi portato o rilevanza significante”.[3]

         E per il grande pubblico televisivo conta poco il fatto della veridicità o meno, ovvero della qualità informativa della televisione; il pubblico meno attrezzato dal punto di vista critico e culturale, alla fin fine, apprezza la funzione socializzante del mezzo televisivo, nel senso che “è la tv a parlare delle cose importanti o che è bene conoscere. E’ la tv che mostra spaccati di vita, comportamenti di uomini o donne che si possono prendere a modello, che narra immaginarie ma affascinanti storie che sarebbe bello potessero capitare davvero. La tv è, così, dotata di uno straordinario potere: un mix tra l’onnipotenza (essere il depositario di tutta la conoscenza possibile, come credono i più) e un’altrettanta grande capacità di sedurre-divertire-intrattenere”.[4]

           Un ingrediente alquanto idoneo per elevare gli indici di ascolto – bene lo sanno i curatori dei programmi – è costituito dall’estetismo corporeo, che ben si accorda con la rivalutazione del corpo, propria della nostra cultura e dell’attuale mentalità. Per questo sono bellissime donne, generalmente dotate di una forte carica di sensualità, a prendere parte ai programmi – in specie, se rivolti ad un pubblico prevalentemente maschile, come quelli sportivi. Nel periodo degli esodi la neo-tv pullulava, ancor più di oggi, delle cosiddette vallette, ovvero di donne chiamate a svolgere l’unica funzione di “figurante”, in abiti perlopiù discinti e con atteggiamenti piuttosto provocanti, le quali erano capaci d’inchiodare al programma in onda anche lo spettatore del tutto disinteressato alla materia dello stesso. E quante liti scoppiassero in famiglia tra marito e moglie proprio per detti programmi, lo sa bene chiunque.

          Se la tv di una volta è riuscita a conquistarsi il grande merito di diffondere la lingua nazionale, alle tante televisioni di oggi va invece ascritto il demerito di aver fortemente contribuito, col concorso ovviamente della sempre più marcata diffusione della società dei consumi, ad omologare in negativo il gusto dei telespettatori e a cambiare profondamente la fisionomia, la cultura e la mentalità degli italiani. Il potere d’influenza e di condizionamento della realtà televisiva odierna è tale che allo stesso è stato molto opportunamente dato il nome di “videocrazia”.

[1] RIVOLSI  M., La realtà televisiva, Editori Laterza, 1998, p.24

[2] Ivi, pp. 28-29

[3] SARTORI G., Homo videns. Televisione e post-pensiero, Laterza, Bari, 1997, p. 51

[4] RIVOLSI  M., op. cit., p.28

1 Commento

  1. Quanto è vero! Pensa cosa rappresenterebbe questo strumento ( come i social) in mano ad un sistema che lo utilizzasse per l’apprendimento e la crescita culturale. Ovviamente dovrebbe imporlo!

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