La televisione in Italia, come è noto, iniziò a subire grandi cambiamenti più di quarant’anni fa e, per l’esattezza, nel 1976, in conseguenza di una sentenza della Corte costituzionale che, dopo ventidue anni di incontrastato dominio della televisione pubblica, dichiarava incostituzionale il monopolio televisivo, consentendo di fatto l’installazione e l’esercizio di impianti di diffusione non eccedente il cosiddetto “ambito locale. Le conseguenze furono la nascita di fatto di una situazione di “duopolio”, da un lato, e, dall’altro, il predominio di un “generalismo” appiattito, che non favorì lo sviluppo di qualità più precise e più adatte alle esigenze di un pubblico molto meno “omogeneo” di come lo si immaginava secondo i cliché della “cultura di massa”. Prima nacquero le emittenti private radiofoniche, poi quelle televisive, che erano tenute a non superare i 150.000 abitanti come massimo bacino di utenza. Prima del ’75 le uniche emittenti private che si potevano seguire erano Telemontecarlo, Tv Svizzera e Tv Capodistria
Una vera e propria esplosione si determinò nel campo delle cosiddette “radio libere” che dalle 150 del 1975 raggiunsero tre anni dopo il numero di 2600. Le emittenti private televisive passeranno, invece, da 68 a 600 dalla metà degli anni ’70 agli anni ’80, e il loro palinsesto arriverà a coprire 24 ore su 24. A causa della forte concorrenza venuta a determinarsi col settore televisivo privato, la Rai sarà indotta ad effettuare una serie di radicali trasformazioni: nel ’77 introduce il colore; nell’81 le sue ore di trasmissione superano le 19; aumenta notevolmente la pubblicità; i programmi di spettacolo superano di gran lunga quelli culturali e per l’intrattenimento vengono scritturati i personaggi di maggiore richiamo.
Mentre negli altri paesi europei il passaggio tra la vecchia e la nuova televisione è avvenuto sotto la guida e il controllo dei pubblici poteri, in Italia si è invece verificato senza alcuna regola. Il legislatore è intervenuto cioè tardivamente a fatti compiuti. Infatti, la Legge 223/1990, meglio conosciuta come la legge Mammì, “ha consacrato formalmente un sistema che si era di fatto realizzato a seguito di una serie di illegalità, di silenzi, di complicità che insieme ai protagonisti dell’emittenza hanno visto coinvolti partiti politici, legislatori, governanti e un’opinione pubblica scarsamente informata e disattenta”.[1] Il fatto certamente grave fu che detta legge non recepì neppure in minima parte l’istanza che era stata espressa dalla Corte Costituzionale, la quale con la sentenza n. 826 del 1988 aveva a chiare lettere enunciato “il principio del pluralismo come valore centrale in un ordinamento democratico”. Il pluralismo, secondo la suddetta Corte, non doveva “in ogni caso considerarsi realizzato dal concorso tra un polo pubblico e un polo privato che sia rappresentato da un soggetto unico o che comunque detenga una posizione dominante nel settore privato”.
Di fatto, la legge Mammì, entrando in netto contrasto con le indicazioni della Corte Costituzionale, ha finito col ratificare un regime oligopolistico, concedendo ad un solo soggetto privato la licenza di possedere fino a tre reti televisive, caso unico al mondo. Oltretutto, come è stato opportunamente osservato, “la possibilità di un privato […] di possedere tre reti televisive nazionali impedisce di fatto ad altri soggetti privati di averne altrettante, in relazione non solo alla limitatezza delle frequenze, […] ma anche al fatto che la raccolta pubblicitaria non potrebbe alimentare adeguatamente altre reti nazionali. Esiste insomma una barriera all’ingresso praticamente insormontabile”. La concentrazione di tre reti televisive – quante cioè ne possiede la parte pubblica – rappresentò un pericolo enorme, se si considera l’influenza enorme che il mezzo televisivo esercita e le alleanze con gli altri centri di potere economico-finanziario che un unico proprietario di televisioni può allacciare. Conseguenza ne è il fatto che il Paese, ormai da più decenni e senza soluzione di continuità, è costretto a fare i conti con un gigantesco conflitto d’interessi, qual è quello costituito dall’impero mediatico della famiglia Berlusconi, a cui si è cercato di porre qualche argine attraverso la Legge n.28/2000, relativa alle norme della cosiddetta “par condicio”.
Tutto ciò, per quanto possa oggi apparire paradossale, è accaduto con la complicità dei partiti politici maggiori che, temendo l’impopolarità, hanno lasciato in piedi il duopolio; mentre il pubblico dei telespettatori era già abbastanza narcotizzato dall’abbondanza di programmi televisivi, per poter esprimere una qualche criticità nei confronti della situazione che si era ormai venuta a determinare in campo televisivo. Un’altra grave manchevolezza della legge Mammì è stata quella di non avere, da un lato, provveduto a regolamentare l’uso del satellite, la pay-TV, l’alta definizione, la televisione interattiva e le reti cablate, destinate ad avere un peso sempre più grande nei decenni successivi, e di non avere, dall’altro, definito l’assetto del servizio pubblico nella nuova situazione di sistema misto che si era venuta a creare.
Negli anni ’75-76, tuttavia, non solo ebbe termine il monopolio della Rai, che fino a quel momento era stato visto come garante del pluralismo culturale, ma venne attuato anche il passaggio dal controllo governativo a quello parlamentare con la legge n. 206 del 25.05.’93. Detta legge mirava non solo a rinnovare la composizione, ma anche i criteri di nomina del Consiglio di Amministrazione della Rai, allo scopo di sottrarre il servizio pubblico alla lottizzazione dei partiti politici, ovvero alla sua stretta dipendenza da questi. In base all’art. 2 di detta legge il Consiglio era composto, infatti, da cinque membri (prima erano 16), “scelti fra uomini e donne di riconosciuto prestigio professionale e di notoria indipendenza di comportamenti che si siano distinti in attività economiche, scientifiche, giuridiche, della cultura umanistica o della comunicazione sociale, maturandovi significative esperienze manageriali”.
[1] GIANNATELLI R. – RIVOLTELLA P.C., Teleduchiamo. Linee per un uso didattico della televisione, Editrice Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1994, p. 33
In realtà, anche oggi che le emittenti sono molte più di allora, la linea culturale di tutte rimane sostanzialmente simile perché identici sono gli interessi dei proprietari e di chi sottoscrive contratti pubblicitari. Il livello è così sempre più sceso perché ogni emittente puntava alla pancia della gente, a quello che questa voleva sentire e vedere, abdicando completamente a quel poco di imput culturale che contraddistingueva la TV degli esordi.