Delle falle del sistema giudiziario italiano se ne parla da sempre e non c’è governo che non abbia, seppure a parole, promesso di porvi rimedio. L’amara verità, purtroppo, è che, vuoi perché la questione non è delle più semplici, vuoi perché gli interessi in gioco non sono pochi, vuoi perché si teme di perdere voti, un’organica ed efficace riforma della giustizia non è stata a tutt’oggi realizzata. E certamente si prova una bruttissima sensazione, quando, come è successo nel caso del terribile omicidio della giovane Antonella Lettieri di Cirò Marina, che tanta risonanza mediatica ha avuto a livello nazionale, il suo feroce assassino, grazie ad un istituto giuridico come il “rito abbreviato”, ha potuto, in quattro e quattr’otto, scrollarsi di dosso l’ergastolo, il quale, secondo il sentire comune della gente non influenzata da alcunché, è apparso da subito come la giusta e meritata pena.
Non bisogna essere certo un giurista o uno del settore per comprendere l’assurdità o, per usare un eufemismo, l’illogicità di detto istituto che, a prescindere dalla gravità del delitto commesso o dal grado di colpevolezza, determina automaticamente la riduzione della pena di un terzo. Né il godimento di detta consistente riduzione di pena è tale da interdire successivamente ulteriori benefici in sede di appello, in cui il giudice può dare riconoscimento ad una o più attenuanti generiche, non tenute eventualmente in alcun conto dal Gup. Perché si stabilisse un più equilibrato ed equo atteggiamento della legge nei confronti di coloro che beneficiano del rito abbreviato, ci sarebbe stato piuttosto bisogno d’impedire ai medesimi il ricorso al secondo grado di giudizio, considerata oltretutto l’assoluta improbabilità che all’ulteriore definizione probatoria si possano aggiungere chissà quali nuovi elementi e tenuto conto del fatto che gli aspetti principali del reato sono stati sostanzialmente riconosciuti, già in primo giudizio, dal reo attraverso confessione, per quanto possano dallo stesso essere state fornite motivazioni del tutto prive di fondamento riguardo al reato commesso. L’interdizione del secondo grado di giudizio, oltre a rappresentare di per sè un più rigoroso canone di giustizia e, come tale, un fattore di maggiore equilibrio, consentirebbe, insieme al rito abbreviato, un combinato disposto efficacissimo per raggiungere un considerevole sfoltimento dei lavori giudiziari, creando nel contempo la premessa per una revisione del significato e della funzione stessa del giudizio di appello, così da non essere più qualcosa di generalizzato come lo è sempre stato e continua ad esserlo.
Va da sé che nel caso sopra richiamato vengano, di fatto, a contrapporsi le due aggravanti della premeditazione e dell’efferata crudeltà con un’unica attenuante concedibile, che è quella costituita dall’incensuratezza. Altre eventuali attenuanti, come la spontaneità della confessione e il “comportamento successivo alla commissione dell’omicidio”, risultano privi dei requisiti ritenuti oggettivamente indispensabili per essere giudicati rilevanti ed apprezzabili ai fini della riduzione della pena. La confessione, infatti, è stata tutt’altro che spontanea, essendo stata resa in modo poco convincente e nient’affatto veritiero, alla distanza di più di un mese dal compimento dell’atroce delitto e solo in seguito alle pressanti e disperate richieste della moglie e del figlio, sull’ultimo dei quali si erano appuntati i sospetti di colpevolezza, per via delle macchie di sangue della vittima dal Ris rintracciate sui di lui indumenti. Lo stesso dicasi del “comportamento successivo alla commissione del reato”, il quale è risultato caratterizzato dall’imperturbata e reiterata protesta d’innocenza, pur di fronte all’evidenza inconfutabile delle prove di colpevolezza raccolte dal Ris.
Come è noto, la concessione o la negazione delle attenuanti generiche è dal codice penale completamente demandata alla discrezionalità del giudice di appello, ma a confortare un non addetto ai lavori come lo scrivente è tuttavia il fatto, da un lato, che sia l’una che l’altra devono comunque essere supportate da “un’adeguata motivazione” e che, dall’altro, quando le circostanze aggravanti “sono dal giudice ritenute prevalenti, non si tien conto delle diminuzioni di pena stabilite per le circostanze attenuanti” (art.69). Oltretutto, l’art. 62-bis stabilisce chiaramente che “anche un solo elemento che attiene alla personalità del colpevole o all’entità del reato o alle modalità di esecuzione di esso può essere sufficiente per negare o concedere le attenuanti stesse”. Certo sa di beffardo che ad un reo che abbia già goduto di un automatico beneficio, pur se colpevole di un delitto pluriaggravato, possa essere, per una ragione o per l’altra, concessa un’ulteriore riduzione della pena in sede di appello.
Se poi si pensa agli ulteriori benefici di cui un reo, nel nostro sistema giudiziario, è legittimato a godere per la buona condotta manifestata in carcere, si ha ragione di credere che sia davvero una chimera la tanto giustamente contestata “certezza della pena”. Tra detti benefici, oltre quello dei congedi e dell’affidamento ai servizi sociali, concessi già a pochi anni di detenzione carceraria, o quello dell’integrazione nel mondo del lavoro che consente di trascorrere in carcere solo le ore notturne, ce n’è un altro davvero singolare, grazie al quale gli anni trascorsi in carcere non vengono computati come formati da 12, ma da soli 9 mesi. Con l’allettamento di simili benefici ditemi quale carcerato è così scemo o così matto, da non manifestare la cosiddetta “buona condotta”!?
Molto probabilmente la Consulta troverebbe anticostituzionale l’inapplicabilità del rito abbreviato limitatamente ad alcuni delitti come il femminicidio, come è stato proposto di fare proprio di recente da parte di qualche organo di stampa e da un Ministro attualmente in carica, ma in questo periodo fin troppo distolto dalla questione-migranti per ricordarsi di detto impegno assunto in campagna elettorale. E, del resto, è legittimo domandarsi se un sistema giudiziario come il nostro, ormai al limite del collasso per via dei tanti processi costretti ad andare molto a rilento, potrebbe reggere la soppressione di un istituto giuridico, nato precipuamente per sfoltire i lavori delle aule giudiziarie e non certo per far funzionare meglio la giustizia. Si è preferito adottare il provvedimento del rito abbreviato, ritenuto poco dispendioso finanziariamente, piuttosto che fare la cosa più giusta ed efficace che sarebbe stata quella di aumentare quanto più adeguatamente il personale preposto al funzionamento della giustizia. Come non rilevare l’assurdità di un metodo come questo che pone in secondo piano la delicatissima questione della giustizia, pur di trovare un rimedio di pronta e poco costosa esecuzione per la soluzione di un problema che è ormai diventato annoso e che risulta – ahinoi! – strettamente intrecciato con quello della democrazia nel nostro Paese.
E già, perché in fondo, a ben rifletterci, la dilagante diffusione delle forze politiche che s’ispirano al populismo nel nostro Paese trova una delle sue principali ragioni giustificative anche nel cattivo funzionamento della giustizia.
Come non concordare caro cognato, d’altra parte la non adeguata funzione della giustizia, la mancanza di certezza della pena, fanno parte degli interessi della società italiana da centinaia di anni e se manca, come manca, il personale, non è un caso.
Giustissime le tue valutazioni sul rito abbreviato.
Gli unici che amano l’attuale sistema giudiziario italiano sono gli autori dei più svariati reati.
I genitori che piangono la morte delle loro figlie assassinate dai fidanzati o dai mariti vedono i carnefici uscire di galera dopo pochi anni, pronti a ricominciare una nuova vita. Tutto questo è assurdo!
Caro professore grazie e complimenti per le argute riflessioni contenute nel suo articolo, la cui lettura mi riporta inevitabilmente alla sua preziosissima collaborazione, allorquando ebbi modo di apprezzare ed approfittare del suo sapere, proprio in occasione del processo Lettieri ove io, quale difensore delle parti civili, unitamente alla collega Marilena Aloe, spesso ci confrontavamo con lei, per arricchire la nostra difesa.
Fu suo infatti, lo spunto letterario di accostare per analogia e similitudini la vicenda di Antonella Lettieri con il personaggio di Agrippina del bel romanzo di Capuana “Il marchese di roccaverdina” che, proprio come Antonella, dopo aver donato la propria bellezza e la propria giovinezza finí per essere vittima dell’uomo dalla stessa mano assassina. Condivido le sue argomentazioni sulle improbabili concessioni delle attenuanti generiche nel giudizio d’Appello ai fini della rideterminazione della Massima pena inflitta nel giudizio abbreviato dal giudice di prime cure. Ritengo però che il diritto di scelta del rito da parte dell’imputato sia sì un diritto difensionale costituzionalmente garantito, ma che lo stesso debba coinvolgere un dibattito allargato a tutte le componenti sociali politiche e culturali, al fine di bene orientare il legislatore verso preclusioni che mal si concilierebbero con il principio della funzione rieducativo della pena da un lato, (Cesare Beccaria docet) e la funzione retributiva della pena, quale corrispettivo per aver violato un comando dell’ordine giuridico e per la riaffermazione del diritto da parte dello stato;
il tutto avendo ben presente e non dimenticando che innumerevoli pensatori e scienziati ne hanno contestato addirittura la fondatezza, definendo la pena, ingiusta, inutile e persino dannosa..
mi riferisco a Tommaso Campanella, Tommaso Moro, Leone Tolstoj, Ferri Montero, e tanti altri
Caro professore grazie e complimenti per le argute riflessioni contenute nel suo articolo, la cui lettura mi riporta inevitabilmente alla sua preziosissima collaborazione, allorquando ebbi modo di apprezzare ed approfittare del suo sapere, proprio in occasione del processo Lettieri ove io, quale difensore delle parti civili, unitamente alla collega Marilena Aloe, spesso ci confrontavamo con lei, per arricchire la nostra difesa.