Giuseppe Ferrari, pittore e letterato della sua adorata Cirò Marina *

       Giuseppe Ferrari è stato, aldilà del suo modesto e silenzioso vivere, una delle personalità a vari titoli più interessanti del panorama artistico e culturale del nostro comprensorio, che sarebbe un gravissimo ed imperdonabile errore non far conoscere quantomeno ai suoi concittadini, che forse non hanno potuto finora apprezzarne compiutamente le doti. L’occasione per ricordarlo e tracciare un, sia pur essenziale, quadro intorno ai suoi molteplici valori umani ed artistici ci è data dal fatto che proprio quest’anno ricorre il decimo anniversario della sua morte.

         Colui che nella vita ha svolto l’umile e delicata professione di maestro ha dedicato tante ore delle sue giornate all’attività di pittore, di poeta e di narratore. Ma la pittura, la poesia e la narrativa non hanno rappresentato per Ferrari né un semplice hobby, né tantomeno un’occupazione passeggera per riempire ore noiose e monotone; hanno costituito piuttosto una profonda ragione di vita, ovvero una vera e propria missione pedagogica, che ben s’intonava col quotidiano lavoro di maestro: anzi, rispetto a quest’ultimo, la pittura e la letteratura sono state una sorta di naturale appendice.

       Il baricentro di tutta l’attività artistica di Ferrari è stato, da sempre, costituito dalla cultura meridionale e, più precisamente, da tutto quel mondo fatto di usanze, cibi, odori, oggetti, immagini, modi di dire e di pensare, proverbi, personaggi, paesaggi, ecc. che dal secondo dopoguerra in poi sono stati inesorabilmente travolti dai molteplici e profondi cambiamenti a vari livelli  intervenuti in tutto il Paese per i più diversi fattori, non ultimo il rapido diffondersi  della televisione e della scolarizzazione di massa. L’interesse folclorico-etnografico rappresenta una costante di tutta l’arte di Ferrari, sia di quella letteraria che di quella figurativa. L’inesauribile serbatoio dal quale egli ha attinto a piene mani la materia della propria arte è stato quello dei ricordi. Solo un’anima precocemente poetica e un’acutissima sensibilità adolescenziale poteva imprimere con assoluta fedeltà nella propria memoria sensoriale e, soprattutto, visiva tante immagini ed impressioni di un passato destinato, nel giro di qualche decennio, a lasciare il posto ad un mondo completamente diverso. Durante gli anni della tumultuosa giovinezza, Ferrari registra tutto della sua amata Cirò Marina: i bellissimi aranceti, gli alberi di acacia posti ai bordi delle strade, l’aria di maggio profumata di zagara, le strade fatte di ciottoli e attraversate dagli asini, dai carri e dalle biciclette, i marciapiedi costruiti con lastroni di ardesia resistentissima, gli anziani a cui allora tutti tributavano grande rispetto e la festa religiosa attesa con tanta trepidazione.

         Ma dipinti, poesie e racconti in Ferrari sono volti ad offrire non già semplici e nude immagini di un passato ormai scomparso, ma a cogliere di questo la più intima essenza e i suoi valori più profondi a beneficio delle ultime generazioni, il cui vissuto non ha potuto certo essere permeato dagli stessi. Non si tratta, dunque, di un recupero folclorico fine a se stesso, ovvero di una tanto inutile, quanto pretestuosa mummificazione del passato. L’intento ideale di Ferrari è stato quello di salvare dal dimenticatoio ciò che a lui appariva come una preziosa ed imperdibile eredità da consegnare appunto alle future generazioni. Offrendo una quanto più vivace e completa serie di documenti visivi e letterari, si è augurato che essa potesse essere presa a base per uno sviluppo migliore della sua comunità. Si dirà che, in un mondo ormai governato dalla globalizzazione e da un sempre più accentuato processo di omologazione, tale augurio potesse risultare un’utopia bell’e buona; ma l’animo del poeta non può certo farsi dominare dalla disperazione e dallo scetticismo della ragione, pena l’inerzia e la morte stessa dell’arte.

           La prima passione di Ferrari è stata la pittura, alla quale si è dedicato fin da giovanissima età. Un suo ex-scolaro che lo ebbe come proprio maestro elementare agli inizi degli anni ’50, nel ricordare il fascino suggestivo del suo insegnamento, ha confessato di aver provato tanta ammirazione per la grande abilità con cui “con un pezzo di carbonella preso dal braciere dava vita a figure eleganti su un cartoncino. […] quella mano gentile del professor Ferrari, che volava sicura sul foglio, è una visione che mi accompagnerà per tutta la vita”.

          La ricerca pittorica dell’artista Ferrari appare orientata verso la documentazione della quotidianità e la celebrazione della gente comune, dalla quale sono tratti i soggetti figurativi a lui cari, mentre gli scenari sembrano proiettarci in una dimensione temporale ormai lontana.   Nei dipinti riportati nell’opera postuma “L’identità della memoria, Cirò Marina a’ ri tempi ‘e na vota” è, infatti, la Calabria, con i suoi peculiari Centri Storici, che Ferrari fissa sulla tela, eternando semplici momenti di vita come istantanee fotografiche del reale. Poca importanza è attribuita all’espressione del singolo individuo che, mosso da gesti lenti e precisi, appare quasi sempre di spalle, di profilo o troppo lontano. Sono raffigurati personaggi noti, come Zzu Peppino al tramonto, ma anche soggetti senza nome, ovvero chiare fisionomie di calzolai, di fornai, di raccoglitrici di olive, o di semplici contadini già evocati nelle tele di Millet che, come è stato rilevato da M. Bona Castellotti, pur “nell’essenziale povertà del soggetto […] eleva il personaggio quasi a emblema di un particolare mondo”.

             Quella di Ferrari, come la sua poesia, è una pittura vernacolare, nel senso che in essa, come già accaduto nel Realismo francese di Courbet e nel Verismo italiano di Fattori, si sceglie di liberare l’arte dal classico soggetto sacro, mitologico o di fantasia – di stampo accademico –  per sostituirlo con un’attenta ‘lettura’ di una precisa realtà sociale e culturale.  Si tratta, dunque, di una ricerca sul rituale delle azioni e sulla memoria storica di Cirò Marina, che è la vera protagonista di tutta l’opera pittorica ferrariana.

      E non è certamente l’Ambiente ad incuriosire l’artista, quanto il Paesaggio, sottolineato nella sua pittura dalla centralità della presenza dell’uomo: Paesaggio in quanto progetto dell’ambiente, inteso come territorio abitato dall’uomo, con la sua storia e le sue tradizioni. Per usare le parole di Ferrari dobbiamo parlare di “identità della memoria”. Nel racconto oggettivo di paesaggi, di contesti sociali umili, di semplici momenti di vita e di lavoro quotidiano si rintraccia un chiaro riferimento al verismo dei Macchiaioli. Appena percettibile e solo in alcune opere si coglie una leggera tendenza alla deformazione caricaturale del personaggio, quasi a voler sottolineare fisicamente la fatica del duro lavoro, un dato che rimanda alla poetica puramente espressionista.

       Quanto alla tecnica impiegata, diversamente dai grandi dell’arte dell’Ottocento, il Maestro di Cirò costruisce un impianto compositivo estremamente rigoroso, strutturato sulla convivenza di figura e Architettura, in cui questa, sovente, sembra prevalere sulla prima. Al ‘taglio fotografico’ – di linguaggio impressionista – si associa l’uso della prospettiva che, spesso, conduce l’occhio dell’osservatore in piani di profondità lontani, con l’intento, forse, di catturarlo e condurlo dentro il racconto.

         Riguardo all’uso del colore, appare subito evidente la scelta di Ferrari in favore della monocromìa, intesa, forse, come tentativo di concentrare l’attenzione sull’evento piuttosto che sulla marcata presenza del dettaglio architettonico. Si sceglie il colore della terra che, steso a macchia in piccole campiture, nell’ampia gamma dell’ocra, gioca un ruolo strategico: si accende con piccoli tocchi di rosso o si trasforma in una tonalità bruna, smorzata dall’ombra proiettata dai muri sulla strada. Ma su tutto è il giallo a dominare incontrastato, poiché esso accende la tela, illumina la scena e coinvolge emotivamente l’osservatore. Macchia, luce, colore e ombra ci riportano, prepotentemente, ai Macchiaioli e alla rivoluzionaria tecnica impressionista.

          Dopo la passione per la pittura, che praticherà fino alla morte, affiorerà quella per la poesia in vernacolo. Le prime pubblicazioni, “Ajera e oj” e “Ditti pajsani e duj ricordi”, rispettivamente del giugno 1981 e del maggio 1983, che vanno nella stessa direzione seguita attraverso la pittura, contengono, la prima, solo poesie in vernacolo, la seconda, oltre a poesie, 566 detti e 6 indovinelli, frutto di una paziente ed appassionata raccolta, durata anni ed anni di ricerca sul campo. “Penzeri picculi e penzeri ranni” del maggio 1991 racchiude, invece, le ultime poesie in vernacolo e, in appendice, col titolo “u manciaru ‘e na vota”, una serie di ricette riguardanti primi e secondi piatti, i pruvisti e i durci. In una bellissima lirica di quest’ultima raccolta, “I masti ‘e scola”, Ferrari rivolge un pensiero  a chi come lui, dopo un’intera vita trascorsa tra i banchi di scuola, rievoca i più intensi ricordi  del passato, come quello della silenziosa uscita dalla scena scolastica: “, “e citti citti vi siti ritirati,/citti com’aviti fatigati,/ picchì i masti ‘u fani maj triatu,/ ntu silenziu comu chiru ‘e na pirzuna /c’à finita n’opira mportanta /e, riposannu, a vida ntu penzeru/ e de cuntentizza ciancia”.

          Dalle prove in vernacolo a quelle in lingua italiana il passo è stato breve e del tutto naturale. La prima della trilogia di opere in italiano è “Racconti” del luglio 1993, le cui 16 bellissime narrazioni sono impreziosite da altrettanti disegni. Qui si dispiega in tutta la sua ampiezza la grande fantasia di Ferrari che, non abbandonando mai l’ambientazione e l’umanità della sua cara Cirò Marina, ci narra le vicende esemplari ed altamente significative di tanti personaggi, presi dalla vita quotidiana del tempo. Vi incontriamo il nonno Beneditto (“Il presepe”), ormai curvo per gli anni e per la lunga fatica, che, mentre è alle prese con la preparazione del presepe, interloquisce col caro nipotino elargendogli massime di vita, ispirate alla saggezza antica; l’artista sognatore Palladino (“Il vestito di carta”) che, non temendo di far mostra delle proprie apparenti stranezze, sfida la gente per poi scomparire: “e non si seppe più nulla di lui, e neanche della gente e neppure della città”; zio Tommaso che, rimasto solo dopo la morte della moglie, si reca dall’unico figlio che ha e che lo vuole far vivere con sé in alt’Italia: “Il treno, lasciata la stazione di Cirò Marina e le ultime case del paese, si era immerso nella campagna. Lo sguardo di zio Tommaso sostava sui poderi a lui tanto noti e che ora scivolavano dolcemente e dolorosamente indietro: Brisi, Ceramidio, Petraro, Feudo. I filari delle vigne erano intercalati di peri e di fichi, divisi gli appezzamenti di terreno da siepi di fichidindia e di canne. Curvi fra i pampini rossicci e gialli e i sarmenti arrugginiti s’intravedevano i contadini, qualche asino in sosta.  Ritrasse lo sguardo dal finestrino, chiuse gli occhi brucenti e si appoggiò con le spalle al sedile, con forza come volesse fermare il treno che, invece, scivolava ora più sciolto col suo tan tan continuo e atroce”.

         Nella  bellissima prosa dei “Racconti” non si avverte mai alcun cedimento o caduta di stile; si nota piuttosto un controllo attento e rigoroso sia della sintassi che del lessico: la prima si dipana in modi piacevolmente scorrevoli e lineari; il secondo sorprende non solo per l’estrema proprietà, ma ancor più per la sua varietà e ricchezza. Dietro alla perizia tecnico-stilistica di Ferrari si colgono tanto studio e tante letture, ma, più di ogni altra cosa, si sente che grande è stato l’interesse e continua la cura con cui si è accostato alla pagina letteraria; gli stessi che lo hanno sorretto nell’arte pittorica. Nulla, dunque, d’improvvisato, né tantomeno di velleitario; solo un’autentica vocazione per la rivisitazione delle nostre più belle tradizioni culturali e per i nostri antichi costumi.

             Un’altra componente essenziale della personalità umana ed artistica di Ferrari è stata l’arguta ironia, di cui ha dato magistralmente prova nella sua penultima opera, la “Storia della prima repubblica, La Commedia rivisitata (Inferno)”, che è stata pubblicata nel giugno del 1997 e in cui, parafrasando il capolavoro dantesco ed aggiornandolo all’epoca odierna, passa in rassegna i mali, i vizi e le pecche del nostro tempo: “Le frodi narro, i furti, gli sprechi/ della prima repubblica italiana,/che al Paese recò enorme danno/ per sua opra malefica ed insana./ De li capi  del governo tratto, dei ministri e dei finanzieri,/ de li partiti la corruzione,/ de’ consiglieri e de’ faccendieri; / di tutta quella banda di lecchini,/ che in periferia furono messi/ a posti di comando o negli uffici/ e d’imbrogli fecero larga messe”. L’opera si compone di un proemio, del quale è stato appena riportato l’incipit, e di 30 canti, il primo dei quali esordisce nel modo che segue:” mentre vagavo sotto la calura/nell’Urbe antica di grandezza piena/ un dì d’agosto, mi trovai disteso/ sopra una panca d’una villa amena”.   Il ruolo di personaggio principale Ferrari l’affida all’attuale onorevole Antonio Di Pietro, allora più famoso come magistrato dell’inchiesta Mani pulite. Chi meglio di questi poteva impersonare il ruolo che era stato di Dante? Nella lunga ed efficacemente strutturata narrazione sono ovviamente introdotti tutti i più noti personaggi politici dell’epoca.  Purtroppo, come suole molto spesso accadere dalle nostre parti, la bellissima e divertente opera di Ferrari è passata quasi inosservata, per l’unico difetto di non essere finita al setaccio né di alcuna autorevole casa editrice, né di alcuna rivista o giornale.

           L’ultima importante fatica di Ferrari, “L’identità della memoria”, è stata pubblicata postuma, ad appena un anno dalla sua morte, a cura della figlia Simona che, in attuazione delle ultime volontà del genitore, ha proceduto ad ordinare il manoscritto. Quest’ultimo lavoro, al quale Ferrari ha dedicato le sue amorevoli cure pur nel periodo della lunga e dolorosa malattia, riflette, più di ogni altra sua opera, il raggiungimento dell’ormai piena maturità artistica e del completo dominio della lingua, e mostra, più di ogni altra, l’acutezza di osservazione e le sue straordinarie doti di memoria. Egli ha saputo, infatti, raccogliere – mese per mese – i momenti senza dubbio più significativi ed interessanti della vita quotidiana della comunità ciromarinese dei primi anni del secondo dopoguerra, ravvivando le descrizioni di sapore storico-etnografico e sociologico attraverso l’introduzione di personaggi e dialoghi che sono il frutto della sua straordinaria fantasia. Ma ad impreziosire le pagine di quest’opera sono, non solo la rarità ed il pregio dei temi e degli argomenti in essa affrontati, ma anche la bellezza e la scioltezza dello stile, la sintassi e la punteggiatura magnificamente cadenzate, e la vivacità dei quadretti di vita sociale rappresentati.

         Non si capisce come mai opere come questa, che oltretutto ben riflettono le radici culturali e la storia dei nostri paesi, continuino a rimanere sconosciute alle nostre scuole. Suona davvero strano, oltre che contraddittorio, il fatto che le stesse, sol perché non hanno goduto della fortuna di essere pubblicate da un’accreditata casa editrice, non debbano ricevere alcun riconoscimento da parte di coloro – membri di qualunque istituzione pubblica, non solo dunque della scuola –  che dovrebbero invece avere a cuore la difesa dei nostri migliori beni culturali ed artistici. Così come non si riesce a comprendere il fatto che il Comune di Cirò Marina non abbia ancora fino ad oggi provveduto a dare vita ad alcuna iniziativa in favore di questo suo tanto grande, quanto sfortunato cittadino. Non è stata avviata neppure la meno costosa delle iniziative che un Comune possa riservare a persona degna di memoria, come la semplice intitolazione a Ferrari di una strada o di una scuola pubblica. L’augurio di chi scrive è che presto si riesca a sopperire a tante manchevolezze e che possa, quanto prima, essere organizzato un Convegno di studi sull’opera e sulla personalità di questo singolare personaggio.

* L’analisi della pittura è stata curata dalla Dott.sa Rosanna Iarrera

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