Nei salotti televisivi sempre gli stessi giornalisti

     Il numero dei giornalisti, stando ad uno studio condotto nel 2017 (Osservatorio sul giornalismo, seconda edizione), ammonterebbe nel nostro Paese a 36,619. Da altre fonti sono forniti numeri di gran lunga più elevati. Resta comunque il fatto che i giornalisti sono davvero tantissimi, anche se la maggior parte di essi non se la passa niente bene dal punto di vista economico, né gode di una situazione giuridicamente stabile e regolare, essendo alquanto diffuso nel settore il fenomeno del precariato, specie nei giornali locali di scarsa diffusione.

    Ma, a giudicare dai giornalisti che sono invitati in televisione come ospiti (escluso ovviamente i cosiddetti “mezzibusti” e i giornalisti-conduttori), il loro numero è alquanto esiguo, riducendosi a poco più di una quindicina. Tra coloro che risultano immancabilmente presenti nei diversi talk show televisivi, figurano, come è noto: Marco Travaglio. Antonio Padellaro, Andrea Scanzi, Massimo Giannini, Paolo Mieli, Massimo Franco, Beppe Servegnini, Marco Damilano, Luca Telese, Alessandro Sallusti, Maurizio Belpietro, Peter Gomez, ecc.  È venuto insomma a determinarsi un vero e proprio regime monopolistico, che non consente al pubblico televisivo che, solo in rarissime occasioni, di poter conoscere altri validissimi giornalisti, che sono davvero tanti e che purtroppo godono di qualche notorietà solo tra gli addetti ai lavori.

     Se a fungere da ospiti sono sempre gli stessi, è del tutto inevitabile che presso una parte del pubblico televisivo detti giornalisti beneficino di un certo gradimento, e che ad un’altra parte suscitino una reazione di rigetto, dal momento che le loro risposte appaiono generalmente abbastanza prevedibili. Accade poi che per la “par condicio” ad un giornalista dell’area berlusconiana di centrodestra, come un Sallusti o Belpietro, bisogna opporne uno della sponda opposta, salvo poi scoprire che su tante questioni l’uno la pensa allo stesso modo dell’altro. Ciò che comunque più conta per un editore televisivo è che i giornalisti invitati come ospiti nei propri talk show siano tutti orientati verso la linea seguita dallo stesso e che normalmente è contro o a favore di questo o di quel partito politico o di un determinato leader. Bastano poche puntate per capire se una Rete televisiva propenda più per un partito che per l’altro o se sia favorevole o meno ad un determinato esponente politico.

     Succede così che qualche leader politico, come, ad esempio, Salvini, non partecipi, né permetta ad altri esponenti del proprio Movimento di partecipare ad un talk show, come “Piazza pulita”, per la ragione semplicissima che detta trasmissione secondo lui è avversa nei suoi confronti. E, per quanto il conduttore della stessa pubblicamente manifesti disappunto per questa diserzione, il rifiuto da parte del leader leghista continua a perdurare.

      Non minore indignazione suscita il capitolo che riguarda i cachet pagati ai giornalisti di carta stampata invitati a fungere da ospiti dei vari programmi televisivi: la somma che è incassata per ogni ospitata va dai mille ai duemila euro, i quali vengono normalmente ad aggiungersi allo stipendio regolarmente percepito dagli stessi da parte del giornale presso il quale svolgono la propria attività lavorativa. Non sono molti i giornalisti che godono di questo privilegio, che consente loro, oltre che d’intascare un bel po’ di denaro, di raggiungere tanta notorietà proprio in conseguenza della massiccia esposizione televisiva. Accade che in più casi le ospitate non siano decise di volta in volta, ma che vengano previste da contratti di varia durata. Molti, ad esempio, ignorano che un giornalista come Travaglio, che funge settimanalmente da ospite fisso del talk show di Lilli Gruber, guadagna, stando a quanto in proposito dichiarato dallo stesso Cairo, editore di La7, 125mila euro all’anno, ovvero 3,125 euro a puntata, cioè 70 euro al minuto.

      Ma i giornalisti-ospiti dei talk show televisivi, oltre a guadagnare tanto denaro, godono di un altro non meno vantaggioso privilegio, che è quello d’influenzare l’opinione pubblica contribuendo ad orientare il voto degli italiani, proprio in quanto è la televisione oggi il mezzo più potente in tal senso, molto più della Rete, il cui potere, sebbene negli ultimi anni la sua diffusione si sia molto accresciuta, non può certo essere paragonabile a quello televisivo. Come si è già avuto modo di constatare, la popolarità di un Salvini, di un Di Maio e di un Di Battista – tanto per citare i casi più eclatanti –  va considerata unicamente il frutto di una esposizione televisiva così massiccia, da costituire un fatto inedito nella storia politica del nostro Paese. È vero che anche le televisioni traggono notevole vantaggio in termini di ascolto dalle continue ospitate di certi personaggi, ma la verità è che questi giovani, aitanti e belli e dal linguaggio semplice e diretto, sono stati trattati dai vari conduttori televisivi con i guanti gialli, nel senso che non sono stati sottoposti ad un contraddittorio stringente ed incalzante, né in molti casi sono stati posti a confronto con i propri diretti avversari politici. Il M5S, per il tramite del suo Responsabile della Comunicazione, Casalino, ha imposto addirittura che il proprio esponente non si trovasse mai di fronte né ad esponenti di parte avversa, né a giornalisti notoriamente poco compiacenti e ostili.

     Nel caso in cui, invece, il conduttore del talk show si trova di fronte all’esponente del partito politico da lui e dalla Rete, diciamo così, osteggiato, adotta quella che a noi piace definire come la “tecnica dell’accerchiamento”, che consiste nel costringere il Tizio a fronteggiare solo e unicamente giornalisti o personalità politico-culturali a lui fortemente avversi. Anche lo spettatore più sprovveduto si accorge subito di queste situazioni che, specialmente negli ultimi anni, sono diventate un fenomeno ricorrente e quasi sistematico, che interessa in particolare le Reti cosiddette private, sfacciatamente di parte, e in particolare La7 che, come è noto, da tempo basa i suoi palinsesti proprio sui programmi di dibattitto e di approfondimento politico. Ma neppure le Reti pubbliche della Rai possono dirsi esenti dal fenomeno descritto.

     La questione della democrazia, dunque, passa oggi attraverso le televisioni, in quanto l’orientamento del voto è di fatto nelle mani di pochi giornalisti della carta stampata che coincidono con i più assidui frequentatori dei salotti televisivi. In un Paese in cui i lettori dei giornali di carta stampata risultano un’esigua minoranza e in cui il voto è generalmente deciso tra improperi, semplicioneria e promesse mirabolanti, espressi a buon mercato proprio durante i talk show, andrebbe effettuato un controllo più attento e rigoroso proprio dell’uso del mezzo televisivo. E bisognerebbe, una volta per tutte, affrontare, attraverso un’apposita Legge sul conflitto d’interesse, la questione della proprietà delle televisioni e quella dei giornali sia di carta stampata che televisivi.

1 Commento

  1. L’articolo racconta la realtà, niente da dire; la questione è che questo aspetto, come molti altri che attraversano i media, è parte integrante dei meccanismi di un sistema che, ovviamente, di democratico ha soltanto il nome, neppure l’apparenza. Personalmente ne farei volentieri a meno!

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