“La triste commedia”, l’album della maturità dei Juredurè

      Il gruppo musicale dei Juredurè con “La triste commedia” ha ormai raggiunto la sua piena maturità artistica. Se ne scriviamo ad una considerevole distanza dalla sua pubblicazione, la ragione è da rintracciarsi nel semplice fatto che il tempo fin qui trascorso ci consente di guardare a questa loro ultima fatica con una maggiore e più adeguata profondità ed acutezza di analisi.

     Va detto, innanzitutto, che a 12 anni dalla formazione dei Juredurè, questo loro terzo album segna novità non poco rilevanti sia sul piano delle tematiche affrontate che riguardo agli stilemi e ai moduli musicali adottati. Se si prova, infatti, a raffrontare la struttura testuale e musicale dell’ormai lontano primo album, “Senza confini”, con quella dell’ultimo, rimbalzano con assoluta evidenza nette differenze tra l’uno e l’altro lavoro; il che comprova, senza alcuna ombra di dubbio, che nei non pochi anni che separano questi due lavori i musicisti che compongono il gruppo hanno avuto modo di affinare la propria arte a livello di esecuzione e d’interpretazione musicale, il che si riflette in modo particolare nell’ampliamento degli interessi e delle esigenze artistiche da parte sia dell’autore delle musiche che del paroliere.

      Le tematiche affrontate nel primo album risultano tutte ispirate ad un meridionalismo di stampo tradizionale, che ricalca un po’ la retorica degli  stereotipi propri del genere: i calabresi costretti ad andare a cercare lavoro a Milano e qui considerati razzisticamente “stranieri”; la voglia di cambiamento espressa dai braccianti ribelli; gli emigranti che, mentre si dirigono nella lontana Germania, osservano dal finestrino del treno la propria terra, bruciata dal sole e dagli incendi, provando dentro di sé un’insopprimibile speranza di un quanto più vicino ritorno; le difficoltà quasi insormontabili dell’emigrante crotonese alle prese con l’incomprensibile lingua  del funzionario tedesco dell’ufficio di collocamento. Un album, insomma, in perfetta sintonia con l’intenzione del gruppo di entrare a far parte, nel panorama musicale di quel periodo, del genere che sinteticamente possiamo definire folk calabro-mediterraneo.

     Con “La triste commedia”, come si legge nella stessa presentazione contenuta nell’album, i Juredurè “tornano con un’anima nuova sulla scena musicale”, per accostarsi ad “una dimensione geografica che non ha confini certi perché costruita dentro l’universo di ogni uomo”, dopo essersi occupati nei precedenti lavori di “storie di migranti e di racconti leggendari di briganti”. Viene così compiuto da parte dei due autori, oltre che un notevole passo di qualità, una virata a 360 gradi degli interessi ideologico-culturali, nel senso che vengono abbandonate le tematiche tipicamente folkloriche, per fare posto a riflessioni di natura filosofico-esistenzialistica e a caratterizzazioni più prettamente sociali o psicologiche.

       È il caso, ad esempio, del brano che apre l’album e che s’intitola “Nente”, e del quale è stato realizzato proprio in questi giorni un bellissimo ed alquanto suggestivo videoclip. In esso si canta che, qualunque cosa accada, non si determina alcuna reazione da parte della gente, perché questa ha ormai spento ogni forma di sensibilità, chiudendosi in un cieco cinismo. Il contesto odierno risulta, cioè, caratterizzato da nient’altro che dall’indifferenza e dall’ipocrisia di chi “prende le distanze, ma mente”. Ognuno, insomma, fa quel che gli pare e piace e niente riesce a “spegnere le voglie della gente”, sempre più in preda ad un’incontenibile “sensualità”. L’unico elemento folklorico che i Juredurè mantengono vivo in questo brano, volto a cogliere vezzi propri dell’umanità odierna, è costituito dal termine “nente”, attinto appunto dal dialetto crotonese. Efficacissimo l’incastro di rime che l’abile paroliere riesce a realizzare nel testo di siffatto brano attraverso la successione frenetica delle parole nente, gente e mente.

      Negli altri brani dell’album continua l’iconoclastica e demistificante rappresentazione delle tante debolezze e contraddizioni dell’uomo dei giorni nostri, sempre più succube d’inganni e di facili illusioni “di futuro inesistente” e sempre più proteso ad emettere “lamenti diplomatici”, a compiere “gesti lenti ed ipocriti fra gli orgogli” e a cedere a “voleri cronici”. L’unica via d’uscita dall’ipocrisia imperante, dai tick e dall’apatia da cui si è sempre più circondati è rappresentata dalla “maruca seducente”, ovvero da quel “velo di follia e da quel losco gioco che ti attanaglia la mente, quando sei da solo o in compagnia, ed essa ti nega battute ed allegria, gira nella notte e per magia ti rapisce sonno e fantasia”.

       Non meno importanti novità sono quelle che si rinvengono nella struttura musicale, nell’elaborazione degli arrangiamenti e nelle modulazioni di genere, considerato che all’album in questione è stato dedicato un anno intero di lavorazione e che alla sua realizzazione hanno preso parte tanti musicisti di grande valore. I brani de “La triste commedia”, nella maggior parte, non sembrano aderire ai clichè tipici della cosiddetta musica folklorica, come il ritmo sostenuto, l’impiego di strumenti popolari come la chitarra battente o pifferi di costruzione artigianale locale, l’aggancio a tematiche proprie della tradizione orale o di brani di autori sconosciuti, ecc. , né ai moduli inaugurati nel panorama musicale italiano dalla Bandabardò, volti semplicemente a divertire  il pubblico e a farlo ballare. Si nota piuttosto la volontà di dare vita ad un florilegio di brani abbastanza variegato nel quale, a fianco di brani melodicamente e ritmicamente più suadenti, se ne incontrano altri che sembrano orientati a sperimentare stili che per certi versi si richiamano suggestivamente alla musica pop, o alla chanson francese, o alla musica di Fiorenzo Carpi – tanto per intenderci l’autore delle bellissime musiche del Pinocchio di Comencini –  per l’esigenza di allargare i propri orizzonti e di percorrere nuovi territori musicali. Ci riferiamo in modo particolare a brani come quello stesso che dà il titolo all’album, Amico, Concedimi un sogno, Anna, Parlami, Loving, Un pensiero per te, dagli arrangiamenti colti e raffinati e che non poco sorprendono l’ascoltatore.

       Se questi sono i risultati raggiunti dai Juredurè con il loro ultimo lavoro, è legittimo domandarsi a quali mete gli stessi potranno tendere nel loro prossimo futuro, considerato, oltretutto, che, come è notoriamente risaputo, ciascun musicista da cui il gruppo risulta composto proviene da studi classicamente rigorosi e che, in più di un caso, trattasi di polistrumentisti davvero eccezionali, a cominciare da colui che si può considerare la sua prima ed importante colonna portante, Antonio Rimedio, il quale suona egregiamente ben quattro strumenti diversi, oltre a curare sapientemente gli arrangiamenti dei molteplici brani fino ad oggi composti. Si è anche affinata nel contempo l’arte di Emanuele Trocino, sicuramente la seconda colonna portante, il quale ricopre l’importantissimo ruolo di unico autore-paroliere e di voce leader, nonché di magnifico intrattenitore del pubblico durante gli spettacoli.

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