“Una trama di parole” di Luigi Capozza

Con “Una trama di parole”, pubblicata nel marzo del 2013 nella collana “prova d’Autore” dell’Editrice romana Aracne, Luigi Capozza giunge alla sua sesta raccolta di poesie, la quale sembra attestare una più compiuta maturità artistica, nel senso che evidenzia sia un più avveduto e rigoroso utilizzo della strumentazione retorico-stilistica, sia l’approdo ad espressioni ideologiche che appaiono ormai definitive.

 Un aspetto essenziale del modo di procedere della meditazione poetica di Capozza è costituito, com’è giusto e naturale che sia, dal costante intrecciarsi della medesima alla sua personale esperienza esistenziale, da un lato, e alla negatività a vari livelli dell’odierno contesto storico-sociale e culturale, dall’altro, così che l’una risulta indissolubilmente legata all’altra. L’impressione piacevole provata dal lettore è quella di seguire, passando da una lirica all’altra, il pensiero dell’Autore nel suo farsi quasi quotidiano, ovvero il suo continuo arrovellarsi intorno ad “antichi cerchi” che “vibrano/ e si dilatano nel nero/ lago della mente” (Antichi cerchi) .

 Se a livello individuale accade che si ceda quasi involontariamente ai ricordi, così che il passato venga di continuo rivisitato, a livello collettivo capita invece che la storia venga sommersa dalla preponderanza dell’“eterno presente”. Infatti,”la storia è coperta di muschio/ e un esercito di ragnatele/ oblia il ricordo (…). Il sangue di chi ha vinto,/ il dolore di chi ha perso/ son finiti in tela di ragno” (La storia è coperta di muschio).

 Ma non manca la lirica dal contenuto lieve, ma non per questo priva di profondità di significato: in “Notte sul prato” la sensazione di sapore naturalistico si fonde perfettamente con quella improntata all’intimismo. In “Ottobre sale”, la lirica che precede quella appena citata, Capozza ricrea, attraverso l’uso sapiente della rima, un alquanto piacevole gioco di suoni che non poco riesce ad impreziosire una lirica già di per sé gustosa per la bellezza estrema delle sue immagini. Dalla medesima ispirazione sono pervase tante altre liriche, a dimostrazione del fatto che a contraddistinguere la silloge è l’elemento della varietà.

 Una delle liriche, a nostro avviso, più belle è “Come fiori di glicine il ricordo”, in cui il poeta, sull’esempio del procedimento montaliano, correla il ricordo ai “fiori di glicine” e al “salice” l’animo piegato sul corpo della propria donna, mentre dantescamente forma una rima baciata con due termini perfettamente identici ma appartenenti a diverse categorie grammaticali, come respiro, prima usato come verbo, poi come sostantivo. Ma l’elemento più prezioso della lirica resta la perfetta fusione degli elementi naturali con la sensualità della situazione amorosa rappresentata.

 La natura nella quale Capozza sembra più armonicamente rinvenire i “correlativi oggettivi” della propria concezione è quella autunnale-invernale, che si adatta perfettamente alla durezza delle verità esistenziali espresse e ai propri stati d’animo: “Livido cielo nell’arido novembre/ e vento freddo/ penetra le foglie sempreverdi,/ alacre compagno dello smarrimento” (Livido cielo).

 I ricordi, definiti con una bella ed originale espressione “pensieri a ritroso”; la vita, che “trascorre come barca/ nel notturno mare rischiarato/ solo da lampare (Chi può dire), e che “non è un’equazione/ ma è mobile orizzonte,/ spersi frammenti” (E’ mobile orizzonte); la speranza, che altro non è che “un guardare il cielo, in attesa/ come bambini” o il tessere di nuovo i sogni del futuro nell’ “immortale luce della luna”; l’inquietudine e il senso di solitudine, che portano il poeta a sentire il “desiderio più intenso e vago” e a non riuscire a “capire l’uomo”, né a sapere “che cos’è l’amore” (Tacere ancora o inventare); la mente che, “come radice senza linfa e terra,/ spinta dal tempo, / chiuso in imperscrutabili confini” (In infiniti arcani) continua a porsi domande sull’eterno; il tempo che ha “serrato il cuore” scavando nei suoi occhi “feritoie impietose” e facendogli scoprire l’impervietà del “crinale della terra (…) e mute le bocche,/ sorrisi stereotipati/ guidati da scontentezza/ e un’indecente richiesta di pietà”(Amico caro), sono questi alcuni dei motivi più importanti della bellissima raccolta di Luigi Capozza. La lirica che riesce a riassumerli egregiamente e in maggiore quantità è “Luce”, la quale risulta incentrata sulla dialettica tra il bene e il male, ovvero tra la tensione dell’anima verso l’infinito e l’inevitabile avvolgersi nell’ “incerto quadrivio/ che appare la nostra esistenza”.

 La raccolta si chiude con la Sezione intitolata “Memorie e sentimenti”, che riunisce le liriche rivolte agli affetti familiari e ai ricordi di più struggente intensità. A comporre detta sezione sono 14 liriche, caratterizzate innanzitutto da una netta e forte compattezza, nel senso che l’una appare quanto più felicemente giustapposta all’altra. Si tratta di liriche composte all’insegna del ricordo e della rievocazione, o della pura e semplice narrazione, così che in detta sezione sono facilmente individuabili tre distinti blocchi, il primo incentrato sui cari genitori, il secondo dedicato ai momenti e ai sentimenti più forti del periodo giovanile, il terzo teso al dialogo con i grandi amici di sempre.

 Capozza, così, nelle liriche comprese nel primo blocco apre il proprio cuore per esprimere quel genere di sentimenti, destinati ad affiorare incontenibilmente, nel corso dell’esistenza, non una volta sola, ma in vari momenti, poiché riguardano frammenti lontani della propria esistenza o persone care che non ci sono più. In “Ma’, ti ricordi?” e in “Tu eri mia madre” il poeta intavola un delicato ed affettuosissimo dialogo appunto con la cara madre: “Ho sofferto ciò che non si sa dire,/ e per tanto tempo/ non ho creduto alla tua morte,/ e solo ora m’acquieta la memoria.(…) Tardi ho capito, tardi, madre mia,/ le piccole cose ch’erano tua vita/ e forse solo ora sono anche mie,/ insieme a te, ma’.Madre mia”. Non meno intenso risulta il dialogo col padre, venuto a mancare al poeta ancora bambino: “Presto, invece, la tua morte venne./ Di te ricordo gli occhi buoni/ nel paziente tema che tracciavi alla mia acerba vita di bambino/ Ti ricordo, padre, come arcobaleno/ nel giogo dell’inverno/ di questi tempi estremi” (Ti ricordo come arcobaleno) .

 La lunga lirica “Ricordi?” traccia, invece, un ben articolato percorso narrativo sul Sessantotto e sulla sua ondata di libertà e di cambiamento culturale, ovvero sugli anni giovanili del poeta, il quale, rivolgendosi al caro “amico della libertà”, confesserà “Ricordo ancora come fosse ieri/ i discorsi sull’uomo e sul sociale,/il dialogo serrato,/ i segni mutui di vita quotidiana,/l’università, le trattorie/ calde e a buon mercato,/ il Sessantotto che ci vide prigionieri/ d’un sogno che sembrava lealtà/ verso l’enigma dell’umanità. (…) Non so s’è tardi ormai/ per capire davvero e per ricominciare,/ so che la fiumara/ ha compiuto un’ansa troppo grande/ e s’avvicina il tempo di sfociare al mare”.

 Una seconda lirica volta a narrare gli anni politicamente ruggenti del poeta è “Lungo la Senna cercavamo radici”, in cui si tratteggiano con amara e quasi divertita ironia i momenti salienti dell’ormai lontanissimo soggiorno parigino: “Venivamo dal Sud convinti d’inventare/ la vita e denudare l’oggi in quel tornare/ al sapore romantico del sidro,/ fermando a Pigalle le puttane,/ per vedere all’alba angeli volare. (…) Poi, un giorno grigio senza veli,/ uscendo dall’anfiteatro Richelieu,/ ci scontrammo con la “Voix ouvriere”./ Fu un lampo improvviso:/ non avevamo propriamente,/ prigionieri ormai d’antichi libri,/ afferrato davvero i nostri tempi”.

 Le ultime quattro liriche si possono considerare una sentitissima celebrazione dell’amicizia, dal momento che in esse Capozza si rivolge ora ad un amico, ora all’altro. In “All’amica” esprime la pesantezza del vuoto sentito dentro: “Non so se davvero merito/ la solitudine che mi scava dentro,/ il vuoto rinsecchito/ finanche di parole”. Quella dedicata all’amico Alberto, invece, è la lirica della profonda ammirazione e dell’affetto sconfinato:”davvero tu sei/ indicibile a dire,/ come il fiorire/ del pesco a primavera,/ come la marina/ che sale al cielo/ dell’infanzia mia./Sei come le colline/ della nostra terra,/ lucenti al sole/ in mille colori./ Sei la dolcezza/ dei monti della Sila,/ del nostro peregrinare gentile/ tra conversari,/ bicchieri di vino/ e il lento/ nostro desinare.(…) Sei l’amico che muore/ per una briciola d’affetto,/ per quietare l’offesa/ delle protervie umane”. Di un dolore straziante risulta, infine, espressione “All’amico Silvano gravemente malato”, da cui emerge la netta sproporzione tra “l’Infinito che strazia senza senso/ te e il mio cuore, infermo amico” e “l’animo buono” di questi, “che ama la mia terra,/ senza fare del male a chicchessia”.

 “Una trama di parole”in cui il “groviglio della vita cerca il suo senso” può, dunque, definirsi una pregevole e bellissima raccolta poetica, sia perché si legge piacevolmente tutta d’un fiato, sia perché, oltre ad accostarci alla fine sensibilità dell’Autore, ci aiuta non poco a comprendere gli aspetti più profondi del vivere umano e ad individuare le ragioni intime da cui discende quel malessere da cui sempre più spesso sembra essere affetto l’uomo dei giorni nostri.

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