Ci sono più poeti che lettori di poesia

      Ad essere maggiormente penalizzata dalla crisi odierna della lettura è, senza dubbio, la poesia, il cui posto tra i consumi librari risulta come uno dei più bassi in assoluto. Quel poco di poesia che si legge, si legge a scuola. E molto raramente è accaduto che un libro di poesia abbia uguagliato il numero delle tirature di uno di narrativa.

     Pare che siano più le persone che scrivono poesia che quelle che la leggono. Il fatto paradossale è che la poesia non viene letta neppure da coloro che la “fanno”. Molti, infatti, di coloro che ai giorni nostri si fregiano indebitamente del titolo di poeta hanno letto le ultime poesie sui banchi di scuola.

       E’ semplicistico affermare che la disaffezione alla poesia nasca solo dalla difficoltosità della lettura del testo poetico. Essa è sicuramente la conseguenza di un insieme di fattori, il più influente dei quali è costituito dalla scuola, ovvero dalle prime ed – ahimè – spesso incancellabili impressioni scolastiche. Il primo (e, purtroppo, in più casi unico) approccio con la poesia, nel secolo dell’istruzione obbligatoria, avviene – come si sa –  tra le pareti scolastiche.

       Notoriamente, la scuola è giudicata come il principale imputato della scarsa diffusione della lettura nel nostro Paese. Si ritiene che la presentazione scolastica del prodotto letterario che, come è noto, si trova in posizione preminente rispetto ad ogni altro genere di lettura, sia tale da fare associare l’atto del leggere più ad un dovere che ad un piacere.  Per ovvie ragioni, a risentire dell’inadeguatezza delle modalità di trattamento del fatto letterario è principalmente la poesia, per il fatto che essa, più di ogni altro tipo di testo, risulta esposto a mistificazioni di varia natura. A queste si deve, in fondo, se la maggior parte dei “provetti” e, spesso, giovanissimi poeti odierni sono persuasi che una frase dal contenuto sentimental-melanconico, le cui parole siano disposte a mo’ di versi, rappresenti una bella poesia. Che va, comunque, definita, se non un’illusione bell’e buona, quanto meno un grossolano fraintendimento, del quale divengono complici i tanti Concorsi di poesia, che risultano organizzati da questa e da quella Associazione in diverse città del nostro Paese e che, in più di un caso, si avvalgono di “giurie” piuttosto improvvisate – a volerle definire con un aggettivo eufemistico.

       Nella scuola sovente accade che della poesia venga considerato solo l’aspetto contenutistico; che della stessa ci si serva per impiantare i discorsi più diversi, senza tuttavia sfiorare, neppure minimamente, la “fisicità” dell’oggetto poetico. Jacqueline Risset ha definito tale procedimento la “dissoluzione dell’oggetto letterario”: il docente, cioè, molto spesso racconta la vita dell’Autore di una poesia; parla dell’epoca in cui questi è vissuto; illustra la Corrente di cui lo stesso ha fatto parte; aggiunge qualche considerazione di sapore impressionistico o moralistico sul contenuto della poesia, per poi, puntualmente, tracciarne la parafrasi. Lo stesso itinerario è tenuto inevitabilmente a percorrere il discente.

       Maurizio Cucchi, uno dei maggiori poeti contemporanei, rispondendo ad uno studente che gli aveva richiesto un parere sulle modalità di presentazione della poesia da parte della scuola, così si esprimeva: “La scuola, purtroppo, ci ha insegnato fin da quando eravamo piccolissimi a fare la prosa della poesia, a farne il riassunto per estrarre quello che il poeta voleva dire. Come se il poeta fosse un imbecille, un pazzo, oppure un originale che invece di dire le cose in maniera normale le dice in maniera arzigogolata e difficile. Allora capire una poesia vorrebbe dire riuscire a decifrarla, per estrarne una comunicazione pratica, un messaggio chiaro. Ma se si cerca una comunicazione chiara ed immediata, è meglio leggere il giornale piuttosto che una poesia”.

       Se la preoccupazione più diffusa tra docenti è quella di far conoscere la storia dell’oggetto letterario, lasciando nella quasi più completa incertezza la caratterizzazione dell’oggetto stesso, risulta allora inesatto voler definire quello realizzato a scuola uno studio letterario, trattandosi piuttosto di uno studio storico.  Quando uno dei più autorevoli poeti della seconda metà del Novecento, come Andrea Zanzotto, si scaglia contro l’operazione scolastica della “parafrasi”, se la prende in fondo con l’uso strumentale che del testo poetico viene fatto dagli insegnanti, che credono in questo modo d’insegnare a scrivere meglio e che poco preoccupati si mostrano del fatto che agli occhi dello studente la poesia possa riduttivamente  apparire  come una sorta di rebus da sciogliere appunto attraverso la parafrasi, ovvero come un testo che meglio avrebbe fatto il poeta a far nascere sotto forma di prosa.  Se alla poesia di Ungaretti ci si rivolge, dopo aver letto decine e decine di pagine di storia, di documenti e testimonianze, perché interessa conoscere il parere di un così importante poeta sugli effetti funesti dell’ultima guerra, si fa solo del sociologismo infarcito di moralismo, che poco o niente ha a che vedere con la poesia. La poesia – è vero – è anche documento storico, ideologico, ma non solo questo!

3 Commenti

  1. Concordo con il.Prof.Gigetto Capozza,la biografia del poeta và conosciuta e studiata,ma bisognerebbe prima far apprezzare un testo poetico con tutte le regole(metrica,etc…) che questo comporta,ma a monte farsi una domanda:quando si può parlare di poesia e quando no?

  2. Concordo con quanto scrivi, caro Franco. Aggiungo soltanto una considerazione, attribuita tradizionalmente a Benedetto Croce. Il quale sosteneva che da bambini tutti scrivono, legittimamente, delle poesie, mentre, da adulti, le poesie le scrivono solo i grandi poeti e gli imbecilli. Poi, ovviamente, ognuno è libero di catalogare i “creatori di poesia” come meglio crede.

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