Gli amministratori col pennacchio

          L’usanza di chiamare a far parte delle giunte amministrative delle grandi città uomini famosi della cultura o dello spettacolo ha avuto inizio negli anni Settanta. I lettori meno giovani senz’altro ricorderanno l’assessore Niccolini a Roma, emblema dell’inaugurazione di questa novità in campo comunale.  Detta pratica, trasferita nei Comuni di piccola e media grandezza, porta di tanto in tanto ad inserire nelle giunte persone che vengono scelte non già per le loro qualità culturali, professionali e morali, ma per il fatto che sono insignite di qualche pennacchio, come –  tanto per fare qualche esempio –   quello di Dirigente scolastico, di Presidente di un Ordine Professionale, di Primario di un reparto Ospedaliero, ecc.

         Insomma, il pennacchio sopravanza su tutto, né si va tanto per il sottile, nel senso che, il più delle volte, non viene preso in considerazione il modo in cui concretamente Caio o Sempronio ha gestito e continua a gestire il proprio Istituto scolastico, o il proprio Reparto Ospedaliero, o il proprio Ordine Professionale. Ma, anche in presenza di una valutazione positiva di detto operato, ciò non costituisce comunque una garanzia certa di buon governo da parte degli stessi nel contesto nel quale vengono chiamati ad offrire il proprio contributo. L’esempio che rimbalza agli occhi è quello dell’ex- Sindaco romano Ignazio Marino, ottimo chirurgo, ma in politica finito come tutti ben sanno.

         Nella maggior parte dei casi, l’esperienza amministrativa dei detentori di pennacchio, generalmente deludente per gli stessi, oltre che per i loro concittadini, resta qualcosa di unico ed irripetibile nella loro vita. Eppure, qualcuno di essi, sopravvalutando, da un lato, la propria persona ed ignorando, dall’altro, i rigidi meccanismi della politica dei giorni nostri, aveva sperato che l’esperienza di Assessore avrebbe fatto da trampolino di una lunga carriera politica. Il nostro pensiero va in modo del tutto spontaneo ad una dirigente scolastica crotonese che, provando a trasferire in ambito amministrativo i modi bruschi ed autoritari da essa tradizionalmente usati con i suoi docenti, ha dovuto, suo malgrado, assumere tutt’altra fisionomia nel nuovo contesto, essendo nello stesso venuto meno l’atteggiamento di supinità e di obbedienza a lei automaticamente tributato nella scuola.

      È nostra salda convinzione che l’adozione in campo politico-amministrativo della prassi appena descritta debba ascriversi ai tempi in cui viviamo, ovvero alla politica concepita più come forma che come sostanza. Viviamo ormai nell’epoca dell’apparire, in cui a contare più di tutto sono l’esteriorità, i bei discorsi e i titoli altisonanti. Eppure, ce n’è di gente che, naturalmente immunizzata rispetto alle tendenze or ora ricordate, potrebbe davvero imprimere un diverso corso al governo della cosa pubblica, incidendo molto positivamente sulla vita quotidiana dei propri concittadini.

     Quello del reclutamento di una quanto più idonea e capace classe dirigente va, tuttavia, considerato il problema principale di ogni società, ma lo stesso risulta ancor più drammaticamente impellente nelle realtà sociali in cui, da un lato, non si è ancora formata una tradizione inversamente rassicurante e in cui, dall’altro, al contrario si conoscono più di frequente dirigenti per varie ragioni inadeguati ed incapaci. Non è da ieri che storici, sociologi ed economisti hanno ravvisato in questo uno dei fattori frenanti dello sviluppo sociale e culturale delle regioni meridionali.

      Beffardamente accade, poi, che le nostre energie migliori, rappresentate da tanti eccellenti giovani, abbiano dovuto lasciare la terra nativa per andare a prestare la propria opera nelle università, nelle strutture ospedaliere, nelle scuole e nelle aziende o di regioni settentrionali o, addirittura, di paesi stranieri. Un esempio che ci viene in mente è quello di Tommaso Saporito, un nostro valente ex-studente che, formatosi nel liceo petilino, è diventato un eccellente Chirurgo di una prestigiosa clinica di Monza. Potremmo citare altri casi analoghi, sempre di studenti che hanno frequentato lo stesso liceo negli anni settanta, attualmente affermati professionisti in vari campi.

      Viene a formarsi cosi un circolo vizioso, per effetto del quale tante belle realtà del nostro Meridione, costrette a perdere i loro migliori talenti, debbano continuare ad affidare la loro sorte nelle mani delle solite mezze tacche o di persone, il più delle volte tanto vanitose, quanto presuntuose, così che risulta o quasi impossibile un ricambio del personale politico, o è possibile solo un ricambio con un personale a demeriti crescenti. Non è una cosa semplice rompere detto circolo vizioso, ma chiunque ami davvero la propria terra e il partito politico nel quale continua a offrire un proprio disinteressato contributo, dovrebbe fare ogni sforzo per attrarre all’impegno sociale e civile le frange giovanili del proprio paese, muovendo dal presupposto che fornire occasioni all’iniziativa, alla creatività e alla spontanea ansia di rinnovamento, naturalmente presenti nei giovani, costituisce di per sé un primo e decisivo passo in direzione della formazione di una più consapevole e responsabile classe dirigente. E da queste occasioni potrebbero, oltretutto, svilupparsi tante preziose sollecitazioni al benefico incontro intergenerazionale e al dialogo, foriero di dubbi e di prese di coscienza delle molteplici contraddizioni e dei tanti nodi ancora irrisolti della nostra realtà sociale e della nostra cultura.

        Le scuole, le parrocchie, non solo dunque le forze politiche, dovrebbero attivarsi nel senso sopra espresso, più di quanto già  facciano, per non lasciare che le nuove generazioni, del tutto prive di occasioni d’incontro e di socializzazione e di benefici stimoli ad una loro sana e completa realizzazione, divengano facile preda delle più bieche ed ottuse forme d’impiego del loro tempo libero, accodandosi automaticamente alla mentalità e alle consuete pratiche sociali del luogo.

        I giovani – è vero –  poi vanno inevitabilmente via, per proseguire altrove i loro studi e, una volta che li hanno ultimati, non hanno modo di sistemarsi, dal punto di vista lavorativo, nel proprio paese d’origine. Ma, per non cadere nel pessimismo più assoluto, bisogna pur sperare che nel futuro meno lontano le cose possano, anche qui, cambiare in meglio e che quanto essi hanno faticosamente imparato possano spenderlo ed investire proprio là dove c’è più bisogno di loro. Diversamente, le nostre piccole realtà, con i giovani che non possono ritornarvi, continueranno inesorabilmente a morire, della stessa morte secondo la quale stanno urbanisticamente morendo i centri storici dei loro piccoli paesi, pieni di case non più abitate da alcuna famiglia e ormai del tutto abbandonate ad immondizie e topi.

Be the first to comment

Leave a Reply

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*