Amministrare la cosa pubblica

Al giorno d’oggi, la probabilità di ricevere una delega di assessore, non essendo più sostanzialmente legata ad alcuna decisione espressa in tal senso da un partito, nella maggior parte dei casi, si fa altissima, ove si sia riusciti a raccogliere un quanto più elevato numero di consensi elettorali in una delle liste del sindaco vincente. Il fattore davvero determinante, con cui viene neutralizzata ogni contrarietà eventualmente espressa da questo o da quel notabile di partito, è costituito proprio dalla forza elettorale. In fondo, l’individualismo oggi imperante nel mondo della politica, sia locale che nazionale, fa essenzialmente leva su questo senso di forza che, in assenza di un’azione di ridimensionamento dello stesso svolta dall’odierno modello di partito, diviene, oltre che fonte di un potere di fatto incontrollabile, fattore di divisione e di lotte fratricide all’interno sia delle compagini amministrative che dei diversi organismi partitici.

          I valori umani, morali, culturali e le competenze della persona non contano nulla: non contano per essere eletti consigliere; ancor meno valgono per occupare una poltrona di assessore. Può accadere, come si è visto nella mia città, che la persona insignita della delega da cui in massimo grado dipende la visibilità del buon governo cittadino  venga a coincidere  con quella che, per tutta una serie di ragioni che sarebbe lungo spiegare, alla prova dei fatti si è rivelata poi come la meno adatta a svolgere il delicato e difficile compito assegnatole. E del resto l’elezione di un candidato è oggi determinata da meccanismi che niente hanno a che vedere con le qualità che più dovrebbero contare nella selezione di un personale così importante come quello degli amministratori della cosa pubblica. Ne citiamo qualcuna, tanto per dare qualche esempio: la serietà, la coerenza, la disponibilità ad un impegno incondizionato e – perché no! – un minimo di competenze in campo giuridico-amministrativo, oltre che socio-economico.

          Le campagne elettorali sono oltretutto divenute ormai questione di non pochi soldi. Si pensi al costo, proibitivo per i più, di uno spot elettorale televisivo o di uno staff formato da un bel po’ di personale da attrezzare, oltre che con centinaia di manifesti e stampe varie, con adeguati mezzi di trasporto. Quanto tutto questo c’entri con l’effettivo funzionamento della democrazia è cosa davvero difficile a credersi; ma bisogna pur rassegnarsi a vedere l’esercizio della politica come ormai irrimediabilmente snaturato dalla sua mercificazione. Ai “poveri-cristi” e ai comuni mortali sono permessi solo i “santini”, ovvero qualche migliaio di cartoncini con su stampata la propria foto accompagnata da un breve e, ahimè!, talvolta patetico motto.

      Quale comportamento è comunemente adottato dal nostro neo-politico nel momento in cui vede cadere sulle proprie spalle una delega da parte di un sindaco? Tenuto conto dell’alto grado di vanità da cui notoriamente risulta affetto l’odierno personale politico di qualunque partito o schieramento, si può, senza tema di smentite,  rispondere  a tale domanda che il politico, prima di accettare la delega, non procede certo a compiere un “esame di coscienza” per autovalutare la propria adeguatezza o meno all’incarico conferito.

      E, purtroppo, la più grave conseguenza che deriva dalla mancanza di una seria autovalutazione delle proprie capacità ed attitudini amministrative sarà quella  – una volta accettato un incarico di assessorato –  di procedere giorno per giorno all’insegna dell’improvvisazione e della precarietà, senza cioè la dovuta visione preliminare delle cose da farsi e senza una precisa calendarizzazione degli impegni e delle attività del medio o lungo periodo. L’amministratore finisce così col dover far fronte, con la difficoltà e la precarietà del caso, ai problemi sotto l’incalzare dell’emergenza, ovvero quando i medesimi giungono ad uno stato comatoso e le risorse per risolverli si sono fatte sempre più inadeguate e dispendiose.

          Programmazione, efficienza organizzativa e controllo: sono parole che, solo in rarissimi casi, nelle amministrazioni meridionali si trasformano in realtà concreta. Riguardo alla prima, capita che o si cada nel vago più assoluto, come nei programmi elettorali, o che, come è successo a seguito dell’ultima tornata elettorale crotonese, la fase cosiddetta programmatoria venga a dilatarsi per un periodo di tempo insopportabilmente lungo. Sta di fatto che l’azione del singolo amministratore, lasciata a se stessa, non regolata cioè da alcuna direttiva, va avanti tra iniziative estemporanee ed episodiche che non sembrano dettate da altra preoccupazione che da quella di assicurare una qualche visibilità al proprio operato.

          Quanto sto per aggiungere qui di seguito vale ovviamente per la classe dirigente di ogni settore, come – ad esempio – quella che è preposta a dirigere un istituto scolastico, un reparto  o un’azienda ospedaliera o altra struttura pubblica. La mancanza di una guida autorevole e davvero all’altezza della situazione (si badi bene: si può essere un ottimo professionista nel proprio campo, ma ugualmente palesarsi come del tutto inadatto a svolgere un ruolo direttivo), capace cioè di costituire occasioni continue di collegialità e di confronto, di sviluppare un’efficace azione di coordinamento nel team dei propri collaboratori e di seguire passo passo lo svolgimento della loro attività, dalla fase di ricognizione e di studio alla fase dell’operatività vera e propria, rappresenta l’altro anello debole del settore amministrativo considerato nel suo complesso. Il non poter disporre di una visione complessiva della situazione particolare, ovvero della problematica specifica, dei diversi settori della vita cittadina, come quelli delle politiche sociali, della viabilità, del verde pubblico, della scuola, della sanità, ecc., porta inevitabilmente a precarizzare, ovvero a compromettere fortemente, l’efficacia dell’attività amministrativa. Una conseguenza tra le tante di detta inadeguatezza funzionale è costituita dall’inutilizzabilità del personale che, nei vari Enti, risulta far parte degli uffici e che, come ammesso da qualcuno degli stessi interessati, è costretto a oziare per tutto l’orario di servizio.

        Il sindaco o l’assessore che non risulta in grado di operare secondo criteri di organizzazione e di efficienza è lo stesso che non procede ad attuare alcuna forma di controllo né sui cantieri aperti, né sull’operato dei propri addetti, né tanto meno si prende la briga di scendere in mezzo alla gente per raccogliere umori, critiche ed eventuali proposte. Fare l’amministratore a tempo pieno dovrebbe, non dico, far perdere il sonno, ma quantomeno tenere la testa impegnata in modo continuo sui più importanti aspetti della funzione pubblica in via di svolgimento.

        Un difetto che riguarda non solo gli amministratori in quanto tali, ma i nostri politici di qualunque schieramento, è costituito dalla mancanza assoluta di coerenza tra ciò che si professa a parole e ciò che effettivamente si fa giorno dopo giorno: oggi si litiga e ci si rivolge accuse anche pesanti, oserei dire, da querela; domani ci si incontra in questo o quel locale pubblico, per cementare alleanze e scendere ad opportunistici compromessi, in vista di qualche tornaconto personale.

        Stando alle dinamiche politico-amministrative che è dato osservare nella nostra realtà, sembra, dunque, che nulla sia cambiato rispetto alla situazione descritta nei primi anni novanta dal sociologo americano Robert D.Putnam in quel bellissimo saggio La tradizione civica nelle regioni italiane; anzi, per certi versi, le cose appaiono di gran lunga peggiorate, se si vanno  a considerare gli indicatori del buon governo ivi misurati e messi a confronto tra un’amministrazione e l’altra dell’Italia. Non è cambiato nulla nella disponibilità, da parte del nostro amministratore, a cogliere le richieste e le effettive istanze della collettività, come non è cambiato nulla nella capacità di gestire una grande impresa pubblica, qual è appunto quella del Comune. Il buon governo, come afferma lo Studioso testè citato, più che “una tribuna dalla quale esporre punti di vista opposti”, agisce, nel senso che esso viene giudicato e apprezzato dal grado di operatività concreta che riesce ad esprimere nel tempo in rapporto appunto tanto alla disponibilità a recepire le sollecitazioni dei cittadini, quanto all’efficacia nel trovare una risposta esaustiva  alle stesse.

         La verità, tuttavia, è che, per far funzionare meglio le nostre amministrazioni pubbliche, c’è tanto bisogno pure di senso civico, senza il cui adeguato sviluppo non ci può essere né partecipazione democratica, né ovviamente alcun buon rendimento delle istituzioni. I nostri concittadini, nella realtà dei fatti, appaiono al contrario sempre meno reattivi e sempre più distaccati dalla partecipazione politica. E’ così, purtroppo, che viene a formarsi quel tanto deleterio quanto ineluttabile  circolo vizioso che rende perfettamente simmetrici gli uni agli altri gli amministratori della cosa pubblica e i cittadini e che ha finito col togliere ogni speranza di riscatto e di cambiamento a tanta parte della società civile, in modo particolare ai giovani che – in un’epoca attraversata da scandali quasi quotidiani e di gravità davvero inaudita  – sono indotti a considerare la politica come qualcosa di sporco.

      Alla luce delle riflessioni fin qui sviluppate, sembrerebbe di poter trarre la seguente conclusione: solo un reclutamento estremamente accurato e selettivo del personale amministrativo e politico può assicurare che siano definitivamente scongiurati i comportamenti e i modi sopra descritti. Ma quale reclutamento e ricambio generalizzato del personale ci si può realisticamente aspettare dai partiti, così come essi si sono fino ad oggi configurati? Quando mai si sono visti i potentati politici mettersi spontaneamente da parte? E’ da tale ordine di riflessioni che si è sempre più indotti a rifugiarsi nella rassegnazione e nell’astensionismo.

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