Che cos’è il populismo

circa 1950: Founder and leader of the Peronist party and president of Argentina Juan Domingo Peron (1895 - 1974) speaks from the balcony of Government House on the 9th anniversary of the movement for Peron at May Square. Behind him is the Foreign Minister Geronimo Remorino. (Photo by Keystone/Getty Images)

La parola “populismo”, da più di due decenni, è divenuta ormai di uso frequente nel linguaggio della politica, ma alla stessa è attribuito un significato negativo e un altro positivo. Prova ne è il fatto che tra le forze politiche che lo praticano c’è sia quella, come la Lega Nord, che se ne dà vanto e lo usa come fiore all’occhiello, sia quella che, al contrario, ritenendola quasi un’offesa, ne prende marcatamente le distanze, anche se vi si riconosce solo di fatto.

       Va da sé che troppo generico risulterebbe identificare il populismo con la demagogia o con l’attuazione della volontà del popolo. Nessun politico oserebbe negare che compito della rappresentanza democratica sia quello di farsi carico delle istanze e dei bisogni espressi dalla propria realtà socio-territoriale di riferimento. E, d’altra parte, il popolo è un’entità, per più di un verso, astratta che non si riesce ad immaginare come qualcosa di omogeneo e di compatto, in quanto al suo interno coesistono di fatto gruppi sociali diversi e spesso in contrasto fra loro, ovvero quel che fino a qualche tempo fa erano definite classi sociali, termine ormai desueto nell’odierna società che è caratterizzata dalla liquidità e in cui si preferisce usare altre espressioni, come caste professionali, poteri forti, corporazioni sociali, potentati economici, lobby, grandi monopoli, tecnocrazie,  ecc.

      Preso, dunque, atto dell’inaccettabilità di detta definizione assolutamente generica di populismo, non resta che volgerci ai modi in cui il termine in questione viene di fatto inteso nell’odierno panorama politico, ovvero analizzare le diverse prassi d’ispirazione populistica che sono adottate da questo o da quel partito o movimento politico. Tanto per trarre un esempio dalla realtà attualmente più attenzionata, la prassi oggi più diffusa su quasi tutto il territorio europeo e, in più rilevante misura, nei Paesi in passato aderenti al Patto di Varsavia è quella che è fatta propria dal populismo dei partiti nazionalisti e/o di estrema destra e che consiste nel fare leva sulla paura ampiamente diffusa nella popolazione riguardo alla questione dei flussi migratori e nell’accrescere ulteriormente la stessa.

       La situazione che è venuta a determinarsi da due decenni a questa parte, durante i quali si è assistito alla lenta ed inesorabile caduta delle grandi e solide ideologie politiche dei partiti novecenteschi, funge ovviamente da terreno di coltura del populismo, nel senso che proprio il venir meno di una concezione-modello di società, di cittadino e di convivenza civile, oltre che di una ben precisa prospettiva di futuro sociale verso cui tendere, ha reso possibile l’appiattimento di alcune forze politiche su quanto di peggio è oggi manifestato dalla pancia della gente. L’onda della reazione anti-immigratoria costituisce solo l’esempio più eclatante del deteriorarsi continuo della funzione sociale della politica.

     La mancanza di un organico e integralmente compiuto programma sociale, sostituito per lo più da slogan ad effetto come quelli che esibisce un Salvini sulla propria felpa o da parole d’ordine del tipo “reddito di cittadinanza” o onestà, trasparenza, “uno vale uno”, ecc. si adatta alla perfezione all’atteggiamento dei populisti, pronti appunto a circoscrivere la propria iniziativa su ciò che, di volta in volta, determina il mal di pancia di questo o di quel gruppo di cittadini. Nella qual cosa non ci sarebbe da ravvisare alcunché di strano, se siffatto comportamento non fosse adottato esclusivamente al fine di racimolare consenso elettorale, oltre che ad enfatizzare lo stato di scontento e di disagio che sta dietro ad un mal di pancia. A dettare cosi l’agenda del politico populista è quel che accade giorno dopo giorno, non già l’adesione convinta a determinati principi di carattere politico, sociale o morale che risultino sanciti in una propria e ben meditata “visione della storia e del mondo”, dai quali possa trarre alimento l’azione politica da esso concretamente messa in atto. È questa la ragione per la quale il populismo si accresce enormemente proprio nei periodi in cui si registrano profonde crisi economiche e forti tensioni sociali, a fronte delle quali la politica tradizionale si mostra del tutto impotente a cambiare le cose.

     Un fondamentale tratto distintivo del populismo consiste, da un lato, nell’assecondare proteste, reazioni e vere e proprie forme di ribellione sociale, senza tentare neppure minimamente di apportare un proprio contributo di chiarezza e di comprensione, idoneo a rasserenare gli animi e a sdrammatizzare le situazioni – che rappresenta, in fondo, la funzione pedagogico-educativa della politica con la P maiuscola  – e, dall’altro, nel cavalcare il malcontento sociale, per screditare l’avversario politico, imputandogli tutta la responsabilità per quanto di negativo è sotteso al fenomeno che è alla base del disagio. L’impotenza stessa dei partiti cosiddetti tradizionali a far fronte a detti fenomeni, per cercare di ridurne la portata o di arrestarli, viene strumentalmente usata dai populisti, per far credere di avere in mano la soluzione già bell’e pronta per qualunque tipo di problema e di potere rappresentare la giusta e sicuramente efficace alternativa di governo, atta a sconfiggere ogni situazione di disagio sociale.

    Il presupposto in base al quale il populismo fa propria qualunque causa o lotta sociale derivi da un mal di pancia è quello stesso che risulta sotteso al populismo di matrice letteraria, portato ad associare tutte le virtù possibili al popolo, o ad una sua parte come i contadini, o i lavoratori delle moderne fabbriche, o più genericamente la gente umile. La politica con la P maiuscola, invece, rigettando l’anacronistico presupposto idealistico dell’indiscussa positività del mondo popolare, ritiene compito proprio e tra i più nobili non tanto quello di accogliere e fare sua qualunque protesta sociale, ma piuttosto quello di operare una sorta di filtraggio tra le medesime, così da dare legittimità solo a quelle che risultino, in base a ideali principi di equità, di giustizia e di eticità, pienamente condivisili. Certamente è molto più facile e, oltretutto, più comodo mettersi dalla parte di coloro che fanno la voce grossa, perché sanno di essere in tanti; di gran lunga più difficile è parlare non alle viscere della gente, ma alla loro testa, ovvero indurre una comunità ad assumere punti di vista meno emotivi e più ragionevoli e a rimuovere posizioni fortemente pregiudizievoli e rigide.

     Non sono pochi oggi i partiti politici che, avendo ormai completamente rinunciato a svolgere alcuna azione di guida e di orientamento nei confronti delle grandi problematiche di carattere socio-economico, politico e ambientale che gravano sul nostro futuro, appaiono privi di riferimenti e linee-guida ideali, ma di fatto gli stessi si mostrano molto abili nell’intercettare umori e mal di pancia della gente. La ricerca del consenso a tutti i costi che è perseguita dai vari populismi di casa nostra ed europei spinge, altro che a problematizzare la realtà e a coglierne le quanto più numerose sue sfaccettature; porta piuttosto a semplificare al massimo il linguaggio adoperato nella propria comunicazione politica e ad adoperare addirittura qualche parolaccia e slogans genericamente rivoluzionari, pur di fare effetto su quel 75 per cento di italiani che non legge alcun giornale e che a mala pena guarda qualche talk show in cui immancabilmente vengono ospitati leader populisti, bravissimi a fare innalzare l’audience col loro linguaggio semplice e sboccato. Insomma, è proprio del populismo tendere a formare una miscela fatta di semplicioneria, da un lato, e di faciloneria, dall’altro, per cui, nel mentre è volto a demonizzare l’avversario politico accusandolo d’incapacità o, peggio, di corruzione, fa apparire i propri sparuti leader come persone mitiche e dotate di bacchetta magica.

     Altro tratto distintivo del populismo è costituito dal movimentismo, il quale rifugge da tutto ciò che sa di organizzazione parcellizzata e rigida sul territorio e di proliferazione degli organismi e delle nomenclature, insomma da tutto quel che, in un passato neppure tanto lontano, nel nostro paese è stato rappresentato da un partito ben radicato sul territorio come il P.C.I. Al carattere movimentista del populismo si accompagna inevitabilmente il rifiuto di fare etichettare la propria identità, ricorrendo alle categorie tradizionali della politica, come Destra, Sinistra, Centro. D’altra parte, la sua trasversalità ad ogni ceto sociale si fonda tutta sulla netta distanza dalle categorie sopra citate, dal che deriva il carattere variegato e composito dei suoi aderenti, tra i quali si trova di tutto e di più. E, del resto, questa composizione apparentemente contrastante è figlia del fatto che il populismo non ha, come i vecchi partiti tradizionali, la pretesa di cambiare tutto, cioè il mondo, la società e l’uomo, ma più semplicemente si batte per obiettivi di carattere pragmatico, come – per fare qualche esempio –arrestare l’immigrazione, eliminare i campi rom, legittimare l’omicidio a scopo di difesa, ecc., i quali – guarda caso – sono i più condivisi dai propri simpatizzanti.

     Ma l’inconsistenza politica del populismo viene, comunque, messa a nudo, nel momento in cui esso passa dalla protesta anti-sistema e anti-casta al fare i conti con la realtà, ovvero con le concrete scelte del governare la cosa pubblica. In questo caso, i populisti si mostrano per quel che sono realmente, abbandonano la sicumera e si trattengono un po’ dal dire peste e corna dei propri avversari politici.

Be the first to comment

Leave a Reply

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*